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Emanuele, la sindrome di Asperger ed io

di Alina Di Mattia

350 milioni di dollari fu la cifra complessiva incassata al botteghino dal film Rain Man, L’uomo della pioggia. Quattro Oscar, due Golden Globes e una serie infinita di premi e nomination: dalla superba regia di Barry Levinson, alla potente drammaticità della storica pellicola, alla toccante interpretazione di Dustin Hoffmann, fino all’originalità della sceneggiatura. Originale, perché gli autori Ronald Bass e Barry Morrow furono davvero pionieri nel parlare di autismo sul grande schermo. Nel 1988, il cinema americano era ben lontano da personaggi alla Forrest Gump o alla Christian Wolf –  il genio matematico interpretato da Ben Affleck in The Accountant di Gavin O’Connor. Il pubblico si trovò, d’improvviso, a fronteggiare un disturbo della personalità di cui non aveva mai sentito parlare o che conosceva ben poco.

Ma se il coinvolgimento emotivo di un bel film ci induce ad appassionarci e incantarci per personaggi come il Raymond di Rain Man sino a farli diventare quasi parte della famiglia, quando un autistico ce l’hai accanto quella magica commozione scompare per far posto ad un’amara e impotente arresa alla verità dei fatti.

https://www.youtube.com/watch?v=tOjyflachbE&t=80s

Di certo è che dal virtuale alla realtà di tutti i giorni il passo è decisamente lungo. Fortunatamente, gli stereotipi cinematografici legati all’autismo hanno lasciato spazio a storie vere e più concrete, come quella della professoressa Temple Grandin – narrata in un documentario diretto da Mick Jackson –  che ha trasformato la sua condizione in un successo di vita. E da quando è stata ufficializzata la diagnosi, molti film hanno contribuito a divulgare informazioni sull’autismo (e più propriamente sull’Asperger), e sono sempre più frequenti gli outing delle celebrità o le rivelazioni/supposizioni su importanti personaggi del passato, da Mozart ad Albert Einstein, ad Isaac Newton ad Alan Turing.
La notizia che Robbie Williams, ex Take That,  sia affetto da tale condizione –  come da egli stesso dichiarato ai microfoni della BBC –  ha fatto il giro del mondo in poche ore. Probabilmente anche dei motori di ricerca del web poiché, se abbiamo imparato a conoscere l’autismo grazie anche ad Hollywood, non tutti sappiamo realmente cosa significhi essere un aspie, ovvero portatore della sindrome di Asperger, una variante meno grave dello spettro autistico, difficilmente identificabile e di cui soffrono, per l’appunto, molti geni e artisti.

A dire il vero, la sindrome di Asperger non la conoscevo neppure io. Non ne avevo mai sentito parlare fino a quando non mi ha portato via Emanuele. Mi spiego meglio: lui c’è ancora, nel senso che fisicamente è ancora con noi, ma la sua essenza è sparita, assopita. In un punto esatto della nostra esistenza qualcuno o qualcosa ha reciso quel filo che ci univa, o forse che univa il corpo di Emanuele, i suoi occhi, i suoi gesti, la sua linfa vitale, alla sua anima.

L’Asperger che non conoscevo ha cancellato Emanuele e mi ha consegnato un’altra persona. Un po’ come avviene in certi film di fantascienza, quando le persone vengono sostituite: una sorta di scambio di persona e di personalità. Trent’anni di vita insieme azzerati; trent’anni di ricordi, di risate, di  giochi, di segreti. L’infanzia, l’adolescenza, i primi amori e le prime delusioni, tutto perduto. Sparito. Un reset cerebrale.

Emanuele è entrato in una dimensione tutta sua nella quale non c’è posto per gli altri’. Una dimensione in cui lui vive serenamente i suoi tempi, i suoi spazi, le sue piccole stranezze, ma che stritola fortemente con quella cosiddetta convenzionale. Già, perché se il personaggio di Raymond viene ammirato e una platea intera applaude la performance della star che gli dà vita, in una società conforme come la nostra, modellata ed in/formata all’interno del cosiddetto frame che rifiuta per convenzione le diversità, una persona nella condizione di Emanuele viene discriminata, esclusa.

Non passa giorno senza il mio ennesimo tentativo di ricostruire il puzzle di un’esistenza disintegrata. Guardo le foto del bambino che era e provo dolore. Tanto. Non oso pensare al cuore di una madre che non ha avuto neppure la possibilità di dire addio a quel figlio sospeso da qualche parte, incastrato in un limbo della sua esistenza alternativa e condannato all’eterna attesa che qualcuno volti pagina per lui.
Un figlio, eppure un estraneo. Uno di cui forse non ci si può fidare, perché non lo si conosce più. Uno con cui non si può parlare perché non ascolta. Uno che non ti guarda più, perché semplicemente non ti vede.

L’Asperger non diagnosticata rompe equilibri, interferisce nei rapporti sociali, conduce alla deriva psichiatrica. Conoscerne la sindrome, significa poter gestire il disturbo. E noi non lo conoscevamo.

Emanuele era un bambino placido e sensibile, il più piccolo di tre fratelli. Come spesso avviene per il terzo figlio, era colui che riceveva meno attenzioni e che potenzialmente avrebbe potuto avere quella che gli inglesi chiamano LFS, ovvero Less Favoured Sindrome, la sindrome del meno favorito. Non aveva difficoltà nella comunicazione ma trascorreva interi pomeriggi chiuso in camera o a giocare con i gatti.
A scuola era perennemente distratto e svogliato, ma riusciva a ottenere comunque discreti risultati. In famiglia veniva spesso beffeggiato per la sua goffaggine e per la lentezza dei suoi movimenti. Ne soffriva, ma dall’alto del suo metro e 90  rispondeva raramente alle provocazioni e ancor più raramente reagiva.

Aveva una spiccata intelligenza ma appariva refrattario a condividere le sue conoscenze. La verità è che non riusciva ad interagire nonostante avesse voglia di farlo. Sin dalle scuole medie usava un vocabolario a tratti forbito e dalla sintassi molto elaborata, ma i suoi discorsi erano spesso noiosi e apparentemente privi di senso. In realtà di senso ce n’era molto, ma a quei tempi eravamo troppo occupati a tenere a bada gli ormoni adolescenziali per trovare un significato ai discorsi di Emanuele.

Era sempre puntualissimo a scuola e, da grande, al lavoro.
Riusciva a parcheggiare con estrema facilità in spazi angusti e con la stessa facilità ne usciva, a costo di stare tutto il giorno a fare manovre maniacali con l’auto. Era monotono e abitudinario e aveva l’ossessione per alcuni cartoni animati giapponesi.
A volte sembrava persino scoordinato nei movimenti ma credevamo fosse colpa della sua altezza. Aveva, al contrario, un’incredibile forza fisica.
Sembrava un fiume in piena con gli argini sempre rotti e pronto ad esondare nel posto e nel luogo sbagliato. Era sufficiente cambiare il programma della giornata per renderlo scontroso.
Non capiva le battute, non afferrava le metafore, non rideva se gli facevamo uno scherzo.
Era circondato da pochi amici per lo più predominanti ed aggressivi, ed era spesso vittima di bullismo. Quando abbiamo cominciato a capire la sua condizione, le sue relazioni sociali erano già compromesse.

Non ricordo in quale punto avvenne “la rottura”, e resta incomprensibile il motivo per cui quel “punto di rottura” passò inosservato ai nostri occhi. Probabilmente avevamo troppi problemi per la testa per occuparci anche dei suoi. In fondo, era meglio credere che Emanuele fosse un tipo strano; ammettere a noi stessi che avesse un qualche problema di salute, era inconsciamente inaccettabile.

Ph. Credit: Kat Jayne – Pexels.com

Ho cercato più volte di guardarlo negli occhi, ma raramente i nostri sguardi si sono incrociati. E quando di rado è capitato, non l’ho trovato in quello sguardo.
Mi è mancato per anni sentire pronunciare il mio nome, sentirmi domandare “Come va”? E quella mancanza diventava un’assenza abissale persino al mio compleanno. Nonostante non ne avesse perso mai uno, all’improvviso aveva cancellato date e ricorrenze.

È impossibile spiegare un vuoto esistenziale a chi non ci è mai finito dentro. È una voragine talmente grande che non lascia minimamente immaginare quanta sofferenza possa entrarci. Uno squarcio che frantuma la normale quotidianità, spezza il corso naturale di un’esistenza.
Emanuele, per me, resterà sempre un adulto mancato: non crescerà, non invecchierà e forse neppure morirà.

Dal giorno in cui l’Asperger è passato a prenderlo, sono trascorsi almeno vent’anni. Lui non è più tornato da allora.  
Quando ho conosciuto la sindrome, ho iniziato ad aiutarlo. E lui ha fatto grandi progressi. Aveva soltanto bisogno di certezze, di approdi sicuri, di qualcuno che non lo considerasse ‘strano’.

Di Asperger non si muore e può persino diventare il punto di forza della propria esistenza. È una forma di autismo che generalmente non viene identificata, che colpisce almeno 1 ragazzo su 250 anche in età adulta. Non sono chiare le cause, ma sembra quasi certo che a concorrere alla condizione ci siano fattori genetici e soprattutto ambientali. Si può vivere con l’Asperger tutta la vita senza accorgersene, ma basta poco per scatenare il disturbo con tutte le sue interferenze.
Viene diagnosticato con difficoltà poiché chi ne è affetto è dotato di intelligenza sopra la media, e tale pregio diventa il paravento dietro il quale si nasconde prima la sindrome, poi i genitori.
Tuttavia, accettare serenamente la diagnosi  senza occultarla dietro gli aspetti caratteriali del bambino, cambierebbe non soltanto la qualità della vita della persona che si trova in tale condizione ma anche quella di chi ne è indirettamente coinvolto, e aiuterebbe a sfatare i tanti luoghi comuni.

Non sono io che sono strano, sono gli altri che sono tutti uguali”, ha detto qualcuno. Già, perché di Asperger non si soffre, si soffre però per il modo in cui i portatori della Sindrome vengono trattati, e in una società in cui ”La disabilità non è la caratteristica di un individuo ma una complessa interazione di condizioni, molte delle quali sono create dall’ambiente sociale” è indispensabile sensibilizzare l’opinione pubblica affinché si possa favorire quella cultura inclusiva che supporti e rispetti le diversità. Per ottenere risultati, però, è necessario che l’informazione parti dal basso, dalle famiglie, dalla scuola.

Dimenticavo, Emanuele mi ha fatto gli auguri per il mio ultimo compleanno.


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