di Alina Di Mattia
Sono lontani i tempi in cui il conte de Gobineau allietava i salotti della borghesia vittoriana con le sue teorie sull’ineguaglianza delle razze umane e sulle differenze inconciliabili.
Erano gli anni del colonialismo europeo in Africa: portoghesi, inglesi, spagnoli e francesi si spartivano i territori africani sulla carta, scambiandosi laghi, fiumi e montagne senza neppure conoscere i luoghi, la cultura o i gruppi umani che abitavano tali territori. Conoscevano bene, invece, il termine razza, parola che nel ‘500 era stata, nell’accezione positiva del termine, sinonimo di appartenenza a un certo lignaggio, ma che cominciava ad assumere connotati espressamente negativi per categorizzare gli ‘altri’, i non bianchi.
Il tentativo de la Societé des Observateurs de l’Homme dei primi anni dell’Ottocento – un secolo in anticipo rispetto agli studi antropologici del ‘900 e al prezioso lavoro di ricercatori come Bronislaw Malinowski e Franz Boas – di realizzare una scienza per comprendere le diversità culturali, fu presto soffocato dalle politiche totalitaristiche di Napoleone. Non furono sufficienti le teorie sull’origine della specie di Charles Darwin a sostegno di una radice comune a tutte le culture, e le cui differenze erano ascrivibili a fattori ambientali, storici e comunque esterni. Anzi, l’evoluzionismo darwiniano fu in un certo senso strumentalizzato, e legittimò scientificamente il concetto di gerarchizzazione delle razze che, qualche decennio più tardi, condusse l’Europa nel baratro dell’eugenetica nazista e nelle pratiche antisemite finalizzate, secondo i loro sostenitori, a migliorare la razza umana.
Tempo dopo, scoprimmo il concetto di relativismo culturale.
Sono passati quasi cento anni da allora, e il razzismo ha soltanto cambiato il nome. Sono numerosi i movimenti antirazzisti che promuovono e valorizzano le diversità; allo stesso tempo sono emersi anche fanatismi che, nell’adesione acritica dell’antirazzismo, si rivelano un pericolo per il vivere civile e che rasentano quello che per Tauguieff è il ‘paradosso dell’antirazzismo’.
È quello che è accaduto negli ultimi mesi negli Stati Uniti. La morte di George Floyd ha innescato una protesta senza eguali che, seppur infinitamente giusta, non è giustificabile dalla furia iconoclasta che ha imperversato nel Paese non risparmiando neanche l’Europa. Distrutte una dopo l’altra, tra le tante, anche le statue di Cristoforo Colombo, dimostrando in tal modo non soltanto di ignorare la Storia ma, soprattutto, di non rispettare quella comunità italoamericana che fu vittima stessa del razzismo anti-italiano e che si riscattò attraverso l’immagine del celebre navigatore genovese e in quel Columbus Day ad essa dedicato.
Qualcuno addirittura parla di revisionismo storico. Quanto sarebbe utile al progresso umano una nuova damnatio memoriae? Quanti sono i casi in cui bisognerebbe condannare all’oblio coloro che per i libri sono eroi? Quante statue di Garibaldi, ad esempio, dovremmo buttare giù? Cancellare la Storia, però, potrebbe privarci di quei passaggi fondamentali per comprendere l’intero percorso umanitario. Respingere le dicotomie bianchi vs neri, fascisti vs comunisti, etc. è necessario e doveroso, ma oltrepassare il limite della stessa intolleranza rischia di generare un sentimento xenofobo al contrario.
Scriveva Martin Luther King: “L’odio è un male contagioso; si diffonde e si estende come una pestilenza; e nessuna società è tanto sana da conservarsene automaticamente immune”. Forse, come suggerisce il sociologo Tauguieff, bisognerebbe pensare ad una ridefinizione del concetto stesso di antirazzismo. Non è così che si può debellare il razzismo.
Articolo pubblicato sul quotidiano IL CENTRO nel giugno 2020