Era una domenica di Pasqua del 1722, quando l’ammiraglio olandese Jacob Roggeveen, credendo di trovare la terra d’Australia scoprì, a metà fra la Nuova Zelanda e il Sudamerica, una sperduta macchia di terra che si ergeva tra i flutti dell’Oceano Pacifico.
Venne chiamata l’Isola di Pasqua o Rapa Nui, l’isola di roccia, ma per i suoi abitanti rimase Te Pito o Te Henua, l’ombelico del mondo. Il più remoto pezzo di terra abitata sul pianeta conosciuto ai più per i Moai, statue alte 20 metri e pesanti 300 tonnellate, con il dorso rivolto verso il mare. Nonostante la collocazione ostica la popolazione della Polinesia vi costruì una civiltà fiorente fino al giorno in cui si estinse e venne persa ogni eredità culturale autoctona. Nel frattempo gli abitanti presero a produrre statue sempre più grandi, come se stessero facendo disperatamente appello all’intercessione divina per evitare la fine.
A distanza di secoli, le analisi di scienziati e ricercatori hanno dimostrato che i ratti, arrivati sulle barche con i primi coloni polinesiani, si moltiplicarono a tal punto fino a distruggere completamente le noci della palma nativa, fonte primaria di nutrimento per le popolazioni locali, impedendo in tal modo la sua rigenerazione. Ne è emerso uno dei più estremi esempi di distruzione delle foreste avvenuto nel mondo, anche se nuove analisi sul DNA hanno fornito spiegazioni diverse. Probabilmente gli abitanti di Rapa Nui furono vittime di incursioni di schiavi sudamericani, e il finto cannibalismo di cui parlano molti libri sull’isola misteriosa fu usato come scusa per sottomettere l’intera popolazione.
Ma se Rapa Nui una volta è stata depredata dai topi o forse vittima di incursioni nemiche, oggi è invasa da plastica proveniente da luoghi lontani. Se per le persone arrivare in questo luogo sperduto nel Pacifico era ed è tanto difficile, per i rifiuti di plastica è molto semplice. Le spiagge dell’isola, un tempo incontaminate, sono infestate da microparticelle di creme anti-invecchiamento, e persino da agenti rinforzanti per capelli utilizzati da consumatori distanti centinaia di migliaia di chilometri!
Il fallimento dell’attuale società dei consumi.
Perché la nascita della plastica fu una grande svolta, certo, finché non abbiamo capito che essa non si sarebbe mai decomposta al sole, nel mare e nel suolo, e avrebbe causato inquinamento nei secoli successivi. Vero anche che la plastica apporta notevoli miglioramenti alla qualità della nostra vita. Provate ad immaginare ospedali con servizi igienici sicuri senza materiali di plastica monouso! Il problema più grande è che il 40% della produzione annuale di plastica, responsabile dell’80% dell’inquinamento degli oceani, viene utilizzato per l’imballaggio. Pensate soltanto che nel mondo vengono prodotte 20.000 nuove bottiglie di plastica ogni secondo.
Ma l’inquinamento da plastica ha trasformato i mari nelle più grandi discariche del pianeta. Il sale è un conservante, per tale motivo le materie plastiche, anche quelle biodegradabili, non si decomporranno mai nell’acqua marina, ma si frantumeranno in piccoli pezzi, le famose microplastiche che non possono ancora essere raccolte dalle nuove tecnologie.
La plastica è entrata totalmente nella catena alimentare da cui dipendono le nostre vite. Eppure la plastica contiene parecchi ingredienti tossici. Un recente studio ha rivelato che particelle microscopiche di plastica cadono dal cielo attraverso la neve, e non sappiamo ancora quale sarà l’impatto di questo consumo sulla nostra salute. Di certo abbiamo bisogno di soluzioni.
L’inquinamento da plastica è stato creato da imprese con il miraggio di costi sempre più bassi e prestazioni più elevate, e gli imprenditori che stanno dedicando la loro creatività a questo problema sono ancora rari.
Federico Di Mattia