di Mario Cantoresi
Ci fu un tempo durante il quale l’odio di cui furono capaci gli uomini fu così grande che i carnefici, oltre ad uccidere le loro vittime, tentarono anche di cancellarne ogni forma di memoria. Poi, quando i giorni dell’incubo ebbero termine, venne il tempo dell’illusione durante il quale l’umanità credette che tutto ciò che era accaduto appartenesse ad un irripetibile passato. Ma quell’ingenua speranza durò poco perché, per ultimo, giunse il nostro tempo carico dello stesso odio di allora ma, quel che è peggio, con nuove generazioni che cercano di misurare il valore degli olocausti attraverso il numero dei morti, catalogandoli anche per ideologie.
In realtà è solo la perfetta conoscenza di ciò che è stato che può impedire il ripetersi di nuovi orrori. È per questo motivo che esistono le tombe, i monumenti e le parole: per mantenere viva la memoria di ciò che fu. Uno di questi monumenti si trova sul lungo Danubio di Budapest, proprio a ridosso del famoso “Ponte delle Catene”, simbolo della Capitale ungherese. L’opera si chiama: “Le scarpe sulla riva del Danubio”. Quel luogo ricorda l’Olocausto degli ebrei ungheresi da parte dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale. Gli ebrei di Budapest venivano trascinati lungo il fiume Danubio, legati a gruppi di tre e uccisi con un colpo alla nuca. Quindi, gli aguzzini toglievano le scarpe ai cadaveri e legavano i piedi dei corpi inerti con grossi massi facendoli sparire per sempre nei gorghi del grande fiume. Una metodologia del tutto simile a quella usata dai carnefici di Tito nelle foibe della Venezia Giulia e della Dalmazia. L’unica differenza erano le viscere della terra che avrebbero dovuto celare i morti al posto della profondità del fiume. Le stesse modalità furono usate dai generali di Videla in Argentina per i “Desaparecidos, dai Turchi contro gli Armeni, dai Khmer Rossi in Cambogia e… per quanto volete che continui ancora ad elencare crimini e misfatti di ogni colore e di ogni latitudine?
Come si può davanti a questi orrori – compiuti nel nome di un’ideologia o per far prevalere un’appartenenza etnica o per imporre la supremazia di una religione – giustificarne un Olocausto rispetto ad un altro e misurarne la gravità di questi mediante il computo numerico dei morti? Ma il perdono ed il giudizio spettano solo ai discendenti delle vittime. Per noi che siamo estranei vale solo una morale: non ci sarà mai pace fra i vivi se tutti e morti non saranno uniti del ricordo! Oggi purtroppo accade… accade perché la gente non si rende conto di ciò che dice e di ciò che scrive, se fosse vero il contrario ci sarebbe più pudore ed una maggiore pietà. A pensarci bene, in fondo, aveva davvero ragione il grande Totò quando nell’ultima strofa della sua bellissima poesia “La livella” affermava: “Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive, nuje simmo serie. Appartenimmo à morte!”.