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La vendemmia. Memorie di una tradizione secolare

di Giacomo Appolloni

Percorrendo l’antica strada statale che da Rieti porta ad Avezzano, attraversando i paesi di Casette, Grotti, Bivio di Concerviano e Casale Salto fino alla diga sul fiume Salto, un’imponente opera artificiale costruita intorno agli anni Quaranta, al visitatore che per la prima volta percorre questi luoghi si apre uno scenario di grande suggestività: coste sempre verdi, boschi secolari ricchi della fauna tipica, fiumi e fiumiciattoli che scorrono generosi anche durante la canicola.

La valle del Cicolano, celebrata da Cesare Cantu come “la piccola Svizzera”, offre uno straordinario spettacolo di natura incontaminata: sulla destra dominano i monti Cervia e Navegna, sulla sinistra il Nuria e la Serra, più avanti la catena della Duchessa e il monte Velino, custodi del valico con la Marsica. Tutt’intorno, sui colli più o meno scoscesi, sono presenti diverse tipologie di piante: querce, cerri, castagni, acacie, faggi, aceri, ginepri e un’infinità di altre specie ad alto, medio e basso fusto, che garantiscono un manto tutt’altro che brullo e conferiscono al territorio un aspetto selvoso, mai interrotto da zone aride.

Da tempi immemorabili, in tutta la regione del Cicolano, e prevalentemente a valle, si coltivava la vite, da cui si ricavavano diverse tipologie di vino. Nei secoli trascorsi, per le famiglie contadine il vino era un alimento fondamentale nella magra, anzi, magrissima dieta di allora. Grazie al suo preziosissimo apporto calorico, il vino diventava un alimento digeribile e di facile reperibilità. Durante le estenuanti giornate di lavoro nei campi, il consumo di vino permetteva ai contadini di assumere le calorie necessarie senza appesantirsi, favorendo digestioni leggere, essenziali per mantenere l’efficienza fisica. Così, la cura nella coltivazione delle viti e il successivo processo di vinificazione diventavano attività di primaria importanza, riflettendo il profondo legame tra l’uomo, la terra e il frutto del suo lavoro.

Oggi, riusciamo a comprendere meglio la ragione per cui il lavoratore dei campi, durante la dura e lunga giornata di fatiche, riusciva a consumare una notevole quantità di vino.

Le prime notizie sulla coltivazione della vite nel Cicolano sono tracciate in alcuni documenti conservati presso l’Archivio di Farfa. Uno in particolare, datato luglio 1073, racconta che alcuni abitanti del castello di Varri donarono al cenobio di Santa Maria anche dei terreni coltivati a vite.

La presenza della vite è ulteriormente testimoniata dai ritrovamenti degli statuti feudali del Cicolano, descritti come “i più antichi d’Abruzzo”, rinvenuti nel 1932 in un codice del XlV secolo presso l’Archivio Vaticano. Questi documenti riguardano i territori di Rigatti, Marcetelli, Mareri, Vallebona, Staffoli, Poggio Poponesco, Gamagna, Sambuco, Poggio (San Giovanni), Radicaro e Rocca Alberti (Alberisi).

Gli statuti feudali del XIII secolo, elencano quanto spetta al Signore Feudatario del castello, quindi buona parte dei terreni o dei beni raccolti come canapa, biada, vite, castagne e altri prodotti.

Una relazione agraria di Antonio Piccinini del 1880, relativa al circondario di Cittaducale, comprendente il territorio del Cicolano fino al 1927, riporta le varie specie di vitigni coltivati. Il documento è parte del fondo “inchieste parlamentari” conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma.

Nello specifico, emerge che, allora come oggi, la vite veniva “maritata” all’albero dell’olmo o all’acero campestre. Dove la vite è coltivata a palo, viene sostenuta da pali di castagno.

I vitigni allora registrati erano così elencati:

Negli anni Trenta, a causa di un parassita che distrusse quasi tutti i vigneti europei, anche la vite nel Cicolano e nel circondario scomparve. Il responsabile fu un parassita denominato Fillossera, originario dell’America Settentrionale, introdotto casualmente in Europa. La sua presenza fu osservata per la prima volta nel 1879 in Italia, in una località vicino Lecco.

A differenza del Paese di origine, in cui il Fillossera distribuiva il proprio ciclo biologico tra le foglie e le radici della pianta senza provocare seri danni, a contatto con le viti europee esso modificò il proprio comportamento svolgendo il ciclo vitale esclusivamente sulle radici. Le punture dell’insetto su radici e foglie danno luogo alla formazione delle cosiddette galle fillosseriche che causano la morte della vite. La grave crisi della viticoltura europea, provocata dalla diffusione del parassita, fu in gran parte superata innestando le viti europee su ceppi di vite americana. Tranne in alcuni casi sporadici, le viti del circondario non restarono immuni all’attacco dell’insetto. Come nel resto d’Europa, anche i vitigni delle nostre valli furono distrutti, portando alla scomparsa di tutti quei ceppi autoctoni i quali conferivano ai vini aromi particolari, come pure una complessità di bouquet che oggi avrebbero potuto entusiasmare quanti si dilettano nell’arte della degustazione organolettica.

Dopo gli anni Trenta, molti abitanti della valle decisero di impiantare un vitigno denominato “Francese”. Questa varietà, caratterizzata da una notevole resistenza alle malattie e alle gelate, si adattava perfettamente al microclima della valle senza necessità di trattamenti con verderame. Sebbene il vino prodotto presentasse una qualità inferiore, il vitigno garantiva un’abbondante produzione di grappoli.

Oggi, nel Cicolano, la vite viene coltivata soltanto per diletto e in piccolissima produzione. Questa attività è svolta in alcuni paesi da qualche pensionato legato alla terra, a riprova che, come giustamente osservava Cicerone nel suo “De Senectude – l’arte di invecchiare”, il ritorno alla lavorazione della terra in tarda età permette, secondo il filosofare dell’Arpinate, di affrontare gli acciacchi degli anni con più serenità e, cosa ancor più gioviale, di conversare tra coetanei davanti a un bicchier di vino di propria produzione che, in quel momento, diventa un collante tra uomo e natura, trasformandosi in un elisir da meditazione. La scarsa inclinazione delle nostre contrade alla ripresa della coltivazione con l’impianto di ceppi americani è dovuta alla costruzione dell’invaso artificiale del lago del Salto, che privò i valligiani dei loro terreni più fertili costringendoli ad un’emigrazione che perdura, e spingendo coloro che restarono ad un’agricoltura prettamente montana e inadatta alla vite.

Ricordo che, da bambino, il periodo della vendemmia veniva vissuto come uno dei momenti più belli dell’anno. Il suo arrivo era annunciato dal caratteristico rumore dei “marcetellani”, maestri d’ascia, che, prima del raccolto, giravano di paese in paese per fare la manutenzione ai tini, alle bigonce e/o alle botti, tutti realizzati in legno di castagno.

Originari di Marcetelli, comune del Cicolano situato sull’antico confine tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, cui il territorio apparteneva, essi battevano una mazzetta in legno, detta “’u maglìttu”, sulle doghe o sui cerchi dei recipienti che, rimasti asciutti dalla vendemmia precedente, erano inevitabilmente rinsecchiti e allentati.

Per vendemmiare tutta la famiglia si alzava all’alba, in quanto l’eventuale calore del giorno avrebbe potuto danneggiare il raccolto, accelerando inevitabilmente il processo di fermentazione dell’uva. Si utilizzavano tini di legno dotati di un gancio, anch’esso di legno, che consentiva di appendere il recipiente direttamente ai tralci ed evitare il ripetuto piegamento della schiena del vignaiolo durante la raccolta.Armati di forbici di metallo, si recidevano i grappoli d’uva che venivano raccolti nell’apposito tino. Una volta pieno, esso veniva svuotato nelle bigonce pronte per essere caricate sui somari o muli e trasportate in cantina.

Alcuni grappoli, scelti tra i più rigogliosi, venivano recisi mantenendo un pezzo di tralcio. Successivamente venivano appesi in un luogo asciutto per essere consumati a Natale. Ai bambini veniva riservato il compito di raccogliere gli acini caduti a terra, in un’epoca in cui nulla andava sprecato.

Raccolte le uve, si pigiavano alla sera con l’antico sistema a calpestio; a noi bambini veniva dato in premio un bicchiere di mosto fresco. Le uve rosse venivano “svacate”, “passate allu corvellu”, per separare gli acini dai raspi che venivano sbolliti “allu callaru”.

La vendemmia si svolgeva in fasi distinte, iniziando prima con le uve bianche, poi con le uve rosse, in quanto non tutte le uve maturano allo stesso tempo.

In alcune comunità valligiane esisteva una vera e propria regolamentazione della vendemmia, evidenziando il suo ruolo non soltanto come attività economica, ma come elemento fondamentale della cultura e dell’identità locale.

Per gentile concessione della rivista “di Questa e d’Altre Terre”, edito da Pro Loco di Fiamignano – Presidente Bruno Creazzo. Anno 1 – N. 1 – Email qat.rivista@gmail.com

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