Sarajevo, 28 giugno 1914. Nella capitale della Bosnia erzegovina, Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austroungarico, viene assassinato da un nazionalista serbo. L’evento è solo il casus belli, un pretesto per far esplodere una polveriera alimentata dagli interessi espansionistici delle potenze europee, ma condurrà l’Europa a schiantarsi contro quello che fu il più grande e sanguinoso conflitto della Storia dell’umanità.
Vienna accusa il governo serbo di avere appoggiato l’assassinio dell’arciduca e manda un ultimatum a Belgrado. Il 28 luglio 1914, nonostante Pasic abbia accettato gran parte delle condizioni dell’atto, l’Austria dichiara guerra alla Serbia, scatenando un sistema di alleanze e una reazione a catena che coinvolgerà 22 potenze mondiali.
“Tornerete prima che cadano le foglie” dirà l’imperatore tedesco Guglielmo II alle sue armate, ipotizzando un conflitto rapido e di poche settimane. Invece, la Grande Guerra terminerà dopo 52 mesi di carneficina, condurrà al fronte 74 milioni di soldati, e provocherà 16 milioni di morti e 20 milioni di feriti e mutilati in tutto il mondo.
Il governo italiano mantiene inizialmente una linea politica neutrale. “Il Paese non è assolutamente nelle condizioni di reggere l’urto di un conflitto!” Dichiarerà l’allora Presidente del Consiglio, Giolitti. Eppure, sotto la spinta interventistica dei nazionalisti, e confidando nell’annessione dei territori irredenti, l’Italia regia volta le spalle agli alleati e sostenuta dalle potenze dell’Intesa, dichiara guerra all’Austria. È il 23 maggio 1915.
Vengono mobilitati 5 milioni di uomini e chiamati alle armi i nati dal 1894 al 1899. L’esercito regio è mal equipaggiato, l’artiglieria è scarsa, tuttavia, lungo la frontiera alpina e la regione del Carso i valorosi figli d’Italia combatteranno undici sanguinose battaglie in cui perderanno la vita 651mila soldati.
Nell’ottobre del 1918, l’esercito imperiale tenta un’ultima offensiva sul Piave, ma il fronte italiano resiste, e l’Austria, finalmente sconfitta, è costretta a ritirare le truppe. L’armistizio fu firmato alle ore 5 del 18 novembre 1918, ma divenne effettivo alle ore 11. Quel giorno ci furono 11mila morti.
La guerra è vinta, ma amara è la vittoria.
L’Italia, seppur uscita trionfante dalla Prima Guerra Mondiale, era sprofondata in una voragine di dolore per l’ingente perdita di giovani vite umane, cui si aggiungeva lo strazio di coloro che non avevano neppure una tomba sulla quale piangere i propri cari.
Il Paese aveva vissuto uno dei più sanguinosi conflitti della Storia terminato con 37 milioni di vittime tra morti e feriti, sia militari sia civili. L’Italia si accollò un fardello altissimo: 650mila morti, 947mila feriti, migliaia e migliaia di dispersi.
Una carneficina combattuta sui territori alpini, a pochi passi dai centri abitati, tanto che i lampi e i rumori delle deflagrazioni delle bombe sulle linee di combattimento arrivavano nitidi nelle città sottostanti, e il dolore e l’angoscia entravano quotidianamente nelle case dei familiari dei soldati.
All’indomani della vittoria, era pertanto doverosa e necessaria una rielaborazione collettiva del lutto per onorare il sacrificio di sangue dell’intera nazione, e consegnare agli italiani un simbolo che potesse seppellire l’orrore di quei quaranta mesi di guerra e glorificare la magnificenza del popolo in armi. Un Grande Morto onorato parimenti del Re e del Genio che potesse rappresentare ogni figlio, ogni marito, ogni padre caduto in guerra. La proposta venne avanzata dal generale Giulio Douhet. Venne quindi istituita una commissione per riesumare le salme di undici militari non identificati, da undici significativi campi di battaglia, ovverosia Rovereto, le Dolomiti, gli altipiani, il monte Grappa, Montello, il Basso Piave, il Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, il monte San Michele e Castagnevizza del Carso. La commissione, formata dal generale Giuseppe Paolini, dal colonnello Vincenzo Paladini, dal tenente Augusto Tognasso, dal sergente Ivanoe Vaccarini, dal caporal maggiore Giuseppe Sartori e dal soldato Massimo Moro, tutti insigniti con medaglia d’oro al Valor Militare, iniziò la ricerca a Passo dello Stelvio e la portò a termine il 20 ottobre del 1921 nella zona del Timavo, con una cura estrema. Badarono che non si trattasse dei resti di un soldato austro ungarico, o che le salme non fossero quelle di militari vittime di decimazioni disciplinari ma, soprattutto, che i resti dei militari non avessero elementi che potessero condurre all’identificazione del caduto. Quando ciò avveniva, le spoglie venivano nuovamente sotterrate. I resti dei soldati furono chiusi in casse di legno identiche. I feretri, dapprima riuniti a Gorizia, furono trasferiti nella Basilica di Aquileia. La prima notte di veglia all’interno della basilica, infine, vennero scambiati di posto più volte affinché nessuno potesse identificarli.
A scegliere la salma da tumulare presso la Mole del Vittoriano, a Roma, fu chiamata la triestina Maria Maria Maddalena Blansizza, coniugata Bergamas (1867-1953), madre di Antonio, soldato irredento caduto e disperso sul Carso. Antonio diventerà per convezione il Milite Ignoto, termine coniato da Gabriele D’Annunzio, e simbolo di libertà e coraggio, Maria resterà per sempre la Madre d’Italia.
Chi era Antonio Bergamas?
Nacque il 9 ottobre del 1891 a Gradisca d’Isonzo, all’epoca sotto la dominazione austro-ungarica. Quando scoppiò la guerra lavorava come maestro in una scuola di Trieste. Fu richiamato alle Armi ma disertò per entrare volontario nell’esercito italiano con il grado di sottotenente. Fu arruolato nel 137° Reggimento di Fanteria della Brigata Barletta come Antonio Bontempelli, falsa identità imposta dal Regio Esercito per accogliere tra le sue fila gli irredentisti. Il giovane morì il 18 giugno 1916 sul Monte Cimone di Tonezza, raggiunto da una raffica di mitraglia. Fu sepolto nella piana della Marcesina ma, in seguito al bombardamento della zona, i suoi resti andarono perduti.
Il 29 ottobre 1921, alle ore 8.00, un treno con a bordo i resti mortali del combattente sconosciuto lascia Aquileia in direzione Roma. La locomotiva, destinata a entrare nella Storia, attraversa cinque regioni e sosta in 120 stazioni in un crescendo di patriottismo e sacralità.
L’Italia tutta accorre a dare l’ultimo saluto al prode combattente, in migliaia si inginocchiano al passaggio del convoglio in un atto di estrema commozione e gratitudine che unisce per la prima e forse unica volta tutto il popolo italiano.
Fu l’apoteosi della Patria, come testimonia il documentario “Gloria, apoteosi del soldato ignoto” a cura della Federazione Cinematografica Italiana e restaurato dalla Cineteca del Friuli, i cui proventi andarono al Comitato Nazionale degli Orfani di Guerra. Il documentario fu proiettato anche all’estero.
Giunto a Roma, il feretro fu trasportato a spalla da sei combattenti insigniti di medaglia d’oro, tra cui il comandante e ammiraglio Luigi Rizzo, affondatore della corazzata Santo Stefano. Il corteo, con al seguito dieci madri e dieci vedove di soldati caduti, attraversò via Nazionale tra migliaia di persone in ginocchio e arrivò alla basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri di Roma. Per tutto il giorno e tutta la notte centinaia di migliaia di persone si recarono in pellegrinaggio nella capitale per dare onore al Milite Ignoto.
Il 4 novembre del 1921, nel 3° Anniversario della Vittoria, Il feretro fu portato a spalla da dodici militari decorati dalle scale del Vittoriano fino alla statua della dea Roma, dove fu ricavato il sacello per il Milite Ignoto.
Più di un milione di cittadini accorsero a rendere omaggio al soldato. Furono oltre diecimila le bandiere innalzate al cielo e migliaia le corone giunte da ogni angolo della nazione. Dalle Alpi all’Aspromonte, dall’Adriatico al mar di Sardegna, vibrarono tutti i batacchi d’Italia.
Sotto gli occhi dei reali e delle più alte cariche dello Stato, sfilarono tutte le Armi d’Italia, seguite da cortei di madri e vedove di caduti, decorati di medaglia d’oro, ex combattenti e rappresentanze di mutilati. Il Re, con un martello, fissò sulla bara la medaglia d’oro al Valor Militare conferita ‘motu proprio’ con la seguente motivazione: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria”.
Il sarcofago venne quindi calato nel sacello e su di esso fu depositata la pietra tombale con incisa la scritta latina “Ignoto Militi”. L’altare costruito da Angelo Zanelli, fu intagliato in un blocco di pietra ricavato nel Monte Grappa. Le parti in pietra invece provengono dai vari campi di battaglia.
Nelle stesse ore, una maestosa cerimonia accompagnò il viaggio finale dei dieci militi ignoti rimasti ad Aquileia. La stessa Maria Bergamas, alla sua morte, verrà seppellita nel Cimitero degli Eroi della Basilica di Aquileia, ai piedi del monumento ai Dieci Militi Ignoti.
Alle ore 10,36 del 4 novembre 1921 fu acceso il fuoco eterno e da quel giorno innumerevoli capi di Stato in visita in Italia, tra cui il Presidente americano John Kennedy, hanno reso omaggio al Milite Ignoto.
Oggi il sacello si trova all’interno del Vittoriano.
- Albo dei soldati caduti per conservarne con segno d’onore il perenne ricordo
- http://www.difesa.it/Il_Ministro/CadutiInGuerra/Pagine/AlbodOro.aspx