di Alina Di Mattia
La presa di coscienza di una comunità del patrimonio comune e la sua salvaguardia sono la chiave per spalancare le porte alla cultura e, di conseguenza, all’economia del domani. Conoscere gli uomini e i fatti della propria terra significa conoscerne i campi di impegni affinché questa stessa terra possa migliorare ed evolversi.
In un mondo ridondante di commemorazioni e celebrazioni sedimentate nel tempo, spesso cariche di retorica incapace di costruire un ponte tra la storia e la sua narrazione pubblica, viene sempre meno la capacità di rinnovare e trasmettere alle nuove generazioni la memoria che ha plasmato l’identità collettiva. La storia è un prodotto sociale e come tale si consuma, viene modificata e reinterpretata nel tempo, e diventa irrilevante nel momento in cui perde forza all’interno della società. Tale passaggio è particolarmente evidente nell’era dell’informazione usa e getta, fenomeno contemporaneo caratterizzato dalla rapida diffusione e obsolescenza delle informazioni, e va a interferire non soltanto nel processo di narrazione e divulgazione della storia, che richiederebbe invece una comprensione approfondita, ma ne distorce la fruizione in un contesto di immediata gratificazione e consumo superficiale. Nasce dunque la necessità di ripensare il passato nel presente, di rivalutare e rileggere sotto nuove e più partecipative forme le piccole storie della grande Storia.
A partire dagli anni Novanta, la riforma degli enti che contribuiscono alla pubblica conoscenza ha introdotto l’outsourcing, quel sistema di collaborazione tra pubblico e privato che legittima, mediante appalti, la concessione a terzi di alcune attività connesse ai beni culturali al fine di alleggerire il peso economico sulle casse pubbliche. In sintesi, viene stabilito che la tutela del bene resti allo Stato, la valorizzazione e la gestione al privato. La stessa legge Ronchey1, n. 4 del 14 gennaio 1993, ha concesso «la possibilità ai musei italiani di creare quei servizi aggiuntivi già presenti in tutti i musei del mondo» come attività editoriali, caffetterie, ristoranti ecc. Pertanto, il museo si è mutato in un soggetto/spazio attivo, non più statico, in cui il merchandising agisce da mezzo per arginare la distanza tra pubblico e sapere2. Tale riforma fu rivista nel 1997, allargando il campo delle attività dei privati e includendo «servizi di accoglienza, di informazione, di guida e di assistenza didattica» fino alle iniziative culturali, eventi musicali e attività di promozione delle tradizioni locali, una vera e propria valorizzazione economica del Bene gestito «allo scopo di perseguire il più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, della gestione e valorizzazione dei beni culturali e la promozione culturale»3.
Successivamente, l’avvento delle nuove tecnologie ha modificato radicalmente il sistema degli enti culturali di divulgare e rappresentare la storia ma, soprattutto, ha intensificato la loro apertura alle comunità coinvolte sul territorio. Nell’ultimo ventennio, infatti, la connessione a Internet e l’accesso alle numerose informazioni presenti sul web hanno rivoluzionato le forme di approccio alla ricerca e all’acquisizione di nuove conoscenze, mettendo di fatto a disposizione un inusitato e stimolante materiale oggetto di studio. L’universo digitale ha restituito una storia “altra” che infrange stereotipi e tende talvolta a ribaltare dogmi e finanche negare il passato4. Di conseguenza, fondazioni, musei, archivi, siti archeologici e parchi si sono trasformati in autentici centri di dibattito culturale al di fuori degli ambienti accademici, generando un cambiamento irreversibile nel modo in cui la conoscenza viene condivisa e fruita. Attraverso iniziative ed eventi privati distribuiti sul territorio come convegni, seminari, mostre, festival letterari, commemorazioni varie, nonché attività legale all’editoria, al cinema, al teatro, al turismo, gli stessi membri delle comunità coinvolte collaborano oggi alla rappresentazione della storia. Come? Tramite la selezione dei temi, l’individuazione dei metodi di divulgazione della stessa, la scelta del tipo di promozione, la condivisione sul web e nei gruppi social, il confronto con gli storici, ma anche con chi ne è diretto testimone. Un esempio tangibile di questo processo è rappresentato dalle mostre contemporanee sulla cultura degli indiani d’America, organizzate da enti privati o statali ma strettamente controllate dalle popolazioni native5. In tale contesto, l’epopea dei nativi emerge dal punto di vista diretto delle comunità coinvolte, offrendo una prospettiva autentica sulla loro storia e rappresentazione.
I luoghi di conservazione culturale emergono dunque come spazi privilegiati non solo per il dibattito e il confronto, ma anche per attività di aggregazione sociale in cui è possibile finanche negoziare i conflitti all’interno delle comunità. La storia cessa in tal modo di essere ambito esclusivo degli esperti; si trasforma in una questione aperta a tutti, diviene spettacolo, e si avvia a colmare quei vuoti di memoria generazionali arginando la distanza che separa i giovani dal passato. Gap causato, tra le tante ragioni, non soltanto dall’uso politico che si è fatto della storia nel tempo, ma anche dall’incapacità dialogica degli accademici6 nei confronti del grande pubblico.
In tale contesto nasce la public history, una ‘storia applicata’ che trae nutrimento dalla costante interazione con il pubblico e favorisce l’elaborazione di una memoria pubblica consapevole e di un rinnovato senso di appartenenza corrosi dall’impatto della globalizzazione. Sono ‘storici pubblici’ tutti coloro che, al di fuori dell’ambito accademico e attraverso i diversi canali e linguaggi di comunicazione, operano negli enti culturali, nelle scuole, nel turismo, nell’editoria e giornalismo, nella televisione e radio, nei siti web e social media, svolgendo la cosiddetta ‘terza missione’7. Si pensi ai numerosi social manager che gestiscono per pura passione i profili di personaggi storici, scrittori celebri, siti d’interesse artistico. La loro presenza non solo facilita l’accesso alla conoscenza, ma stimola una partecipazione attiva, trasformando la cultura in un patrimonio condiviso e accessibile a tutti, «una dimensione in cui la collettività possa rileggere il passato e immaginare il futuro come risultato delle proprie azioni»8. Tra l’altro, le attività svolte attraverso i social network, vanno a enfatizzare le fonti storiche e contribuiscono a stimolare l’interesse del pubblico, specialmente quello più giovane, apportando cambiamenti nel loro modus pensandi e a colmare, seppur in parte, il gap generazionale.
Sulla linea della storia pubblica i luoghi di cultura sono, pertanto, non più in semplici contenitori statici delle memorie del passato, bensì spazi vivi e creativi aperti all’intera comunità, volti a incoraggiare la riflessione critica del visitatore attraverso nuove modalità di consumo della conoscenza, con la consapevolezza che «gli oggetti, in quanto espressione di un’identità, stimolano riconoscimento, sollecitano ricordi e creano legami»9.
L’Abruzzo offre parecchi esempi di public history: la Marsica, in particolare, vanta un patrimonio culturale ricco e variegato che abbraccia diversi periodi storici. Castelli, musei, chiese, abbazie e siti archeologici testimoniano un importante legame con la storia del territorio. Eloquenti esempi ne sono il Castello Piccolomini di Celano, risalente al XIII secolo, o quello di epoca rinascimentale di Ortucchio, oppure ancora i resti dell’antica città di Alba Fucens che affonda le radici in epoca romana. La partecipazione dei cittadini a cerimonie, conferenze, incontri culturali, nonché a rievocazioni storiche e cortei, come ad esempio la Bulla Indulgentiarum che si svolge ogni anno a Cerchio, o quella della Battaglia dei Piani Palentini che coinvolge i comuni di Tagliacozzo, Magliano dei Marsi e Scurcola marsicana, sottolinea l’arduo impegno di amministrazioni locali, storici, appassionati e volontari nel preservare la memoria storica e contribuire alla formazione dell’identità della comunità.
Tra le tante ricchezze artistiche presenti sul territorio marsicano, in perfetta linea con la public history, si inseriscono la Casa Museo Giulio Raimondo Mazzarino e il Centro Studi Ignazio Silone, che hanno sede a Pescina, nel cuore dell’Abruzzo. La prima è situata nella palazzina ricostruita, cinquant’anni or sono, sui resti dell’abitazione in cui nacque uno dei personaggi più influenti del XVII secolo, il cardinale Giulio Raimondo Mazzarino. Collocata nella parte più alta della città marsicana, non distante dalla tomba dello scrittore Ignazio Silone, la struttura ospita uno spazio di conservazione culturale che si propone di restituire, dopo quattrocento anni dalla scomparsa del celebre ministro italo-francese, una rilettura della sua figura mediante un punto di vista ‘glocale’, ovverosia analizzando la sua personalità e il suo operato attraverso la pluralità dei moderni strumenti multimediali e digitali a disposizione e, allo stesso tempo, coinvolgendo la comunità, rendendo in tal modo più fruibile la storia rispetto ai metodi convenzionali, come la lettura di un libro o la partecipazione ad una classica lezione scolastica.
Dal marzo 2022, con la sottoscrizione del protocollo d’intesa, la Città di Pescina è entrata a far parte del circuito dei Parchi Letterari Italiani, la rete nazionale che promuove il patrimonio materiale e immateriale del territorio. Il circuito ha l’obiettivo di trasformare i luoghi celebrati e decantati dagli scrittori, abitati e vissuti dai personaggi storici, in percorsi turistici e culturali atti a coinvolgere il tessuto commerciale delle comunità di riferimento. La Casa Museo Mazzarino e il Centro Studi Ignazio Silone, sono attualmente parte di questi itinerari turistici e contribuiscono in modo determinante alla formazione dell’identità locale, intesa come consapevolezza della storia, delle tradizioni, dei luoghi e delle personalità illustri che hanno giocato un ruolo determinante nella crescita del territorio.
Rispetto alla prima, il Centro Studi dedicato all’autore di Fontamara emerge come la destinazione più ambita dai turisti. Silone è una figura contemporanea che ha vissuto direttamente nel territorio, facendone lo scenario memorabile della maggior parte delle sue opere, diversamente da Giulio Raimondo Mazzarino che ha operato principalmente in Francia. In più, la casa natia di Silone è stata restaurata incorporando gli stessi arredi e oggetti personali appartenuti allo scrittore e conservati dai suoi familiari, oggi accessibili ai visitatori che hanno l’opportunità di immergersi in un’esperienza autentica e intima della vita e dell’ambiente che hanno influenzato le opere dell’illustre pescinese. Il palazzo della famiglia Mazzarino, al contrario, ha subito un destino diverso. A seguito del terremoto del 1915, gran parte della struttura, ad eccezione della caratteristica loggetta che si affaccia sul fiume Giovenco, è andata perduta, con il risultato che mobilio e oggetti personali sono stati smarriti o sottratti nel corso del tempo.
Tale circostanza aggiunge un elemento di sfida nella ricostruzione e presentazione della cultura, e richiama l’attenzione sulla necessità della preservazione del patrimonio storico in determinate circostanze, come quelle causate da eventi naturali. La presa di coscienza da parte di una comunità riguardo il patrimonio comune, inteso non solo come beni materiali, ma anche come tradizioni, storia e identità condivisa, costituisce un passo fondamentale per la sua tutela e, al tempo stesso, assicura alle generazioni successive l’accesso a una eredità culturale completa e variegata, impedendo che frammenti critici del passato vadano perduti nel corso del tempo.
Il coinvolgimento collettivo alla promozione della cultura locale, quindi, assume il ruolo di motore nella crescita sociale, arricchisce la quotidianità delle persone con opportunità di apprendimento e scoperta, contribuisce all’attrattività turistica, configurandosi come chiave strategica per aprire le porte allo sviluppo economico. Scenario di riferimento diventa ‘il luogo di conservazione della storia’, lo spazio museale che si trasforma in punto di incontro, di produzione e di educazione al sapere dando voce alle diverse identità territoriali in cui sono sedimentati sapienza e tecniche che vanno ascoltate e valorizzate. Non più, quindi, un deposito di oggetti d’arte e memorie per conservare la conoscenza, ma uno spazio aperto anche a narrazioni non ufficiali che, pezzo dopo pezzo, ricompongono il mosaico culturale del territorio, destinato altrimenti a dissolversi nei meandri del tempo. In tale contesto, l’uso delle fonti orali, dei ricordi degli anziani, delle scoperte di appassionati e curiosi, diventano strumento di arricchimento per la comprensione del passato, incoraggiando la partecipazione attiva della comunità nella costruzione di una storia condivisa.
Tuttavia, se la tecnologia può facilitare il processo di ricostruzione degli eventi passati, la partecipazione umana e il confronto critico sono essenziali per preservare la ricchezza della memoria storica. La presenza dei visitatori è determinante per lo spazio museale, e la capacità dei praticanti di raccontare, analizzare e confrontare le divergenti versioni degli eventi storici costituisce il punto di partenza di questo processo di cultura partecipativa, in cui «il passato dovrebbe essere trattato come un’esperienza umana condivisa e opportunità di comprensione, piuttosto che un terreno di divisione e sospetto»10. Comprendere le proprie radici favorisce un senso di identità e appartenenza e aiuta la comunità a preservare le tradizioni culturali. Analizzare criticamente gli esempi di resilienza e progresso nel passato può motivare la stessa a perseguire obiettivi positivi e a lavorare insieme per il bene comune. Ma per garantire il passaggio di testimone tra generazioni, il processo deve imperativamente coinvolgere i giovani e, soprattutto, gli accademici «addestrati al pubblico»11, ovverosia capaci di comunicare in modo efficace e coinvolgente, affinché possa essere promosso un consumo critico della storia, ed essa venga considerata parte integrante del presente e del futuro di una comunità.
È evidente la necessità di adottare tecniche di comunicazione adatte alle specifiche necessità, prevedere una certa attitudine all’accoglienza, e di sicuro un metodo di rappresentazione della cultura che semplifichi la comprensione dei significati delle memorie storiche e delle collezioni museali. Il processo dovrà esigere una visione comune e condivisa per la formazione dei public historian, che colleghi le esigenze della struttura culturale con l’offerta accademica e le direttive ministeriali. Inoltre, l’interscambio tra enti deve diventare basilare affinché la cultura non venga frammentata in compartimenti isolati, ma torni a essere al centro della creazione di senso12. Molti di essi si avvalgono di personale volontario e operano con la partecipazione attiva della comunità locale, offrendo ai cittadini il diritto a contribuire alla promozione dell’eredità culturale cui di fatto appartiene, e richiamando al contempo la comunità al dovere etico nei confronti delle proprie radici culturali.
Tuttavia, gli attori che contribuiscono allo sviluppo socioeconomico di una comunità dovrebbero mettere a disposizione personale formato, come previsto dai regolamenti per la cultura delle Regioni13, ma soprattutto un impegno economico per la loro crescita professionale, conditio sine qua non per operare. Buona volontà e competenze sono importanti, ma le risorse finanziarie sono indispensabili per garantire un’efficace gestione del patrimonio culturale e lo sviluppo di nuovi sbocchi occupazionali. Lo Stato non può delegare la promozione di un ente culturale al singolo individuo o al lavoro del volontariato locale. Sebbene quest’ultimo possa essere prezioso, presenta limitazioni in termini di risorse, competenze e continuità, e per garantire la tutela e la valorizzazione delle ricchezze storiche di una comunità è necessario coinvolgere strategicamente le istituzioni statali nella gestione e promozione degli spazi museali di provincia. Necessario, inoltre, è sostenere il percorso della struttura verso l’autosostenibilità, mediante strategie di marketing efficaci per aumentare la visibilità della stessa, in modo da attirare più visitatori e investitori e, di conseguenza, produrre entrate da biglietti, merchandising e donazioni.
Non secondaria, inoltre, è una revisione critica delle priorità nelle programmazioni culturali. Il fenomeno di eventi espositivi, spesso spettacolarizzati ma privi di contenuto, supportati da un grande apparato di comunicazione mediatica che premia mostre mediocri ma anche di cattivo gusto, deve cedere il passo a luoghi fisici, tangibili, in cui la storia prende vita e in cui si forma l’identità culturale di una determinata comunità. La qualità e la rilevanza degli spazi espositivi dovrebbero avere un ruolo più rilevante rispetto alla spettacolarizzazione fine a sé stessa.
Quanto alle comunità, qualcuno ha detto che «conoscere gli uomini e i fatti della propria terra significa conoscerne i campi di impegno affinché essa possa migliorare ed evolversi», ma ciò implica una presa di responsabilità nei confronti della stessa terra. Affrontare tali sfide richiede un impegno collettivo, in cui Stato, comunità locale e attori culturali collaborino attivamente assicurando la perpetuità di un patrimonio storico ricco e accessibile alle generazioni attuali e future.
La tutela e la valorizzazione sono concetti strettamente interconnessi. Non può esserci tutela senza valorizzazione, e qui si apre il dibattito.
Note