Il fabbro di Auschwitz e quella B di ‘arbeit’ capovolta che nessuno vide

Il fabbro di Auschwitz e quella B di ‘arbeit’ capovolta che nessuno vide

di Mario Cantoresi

 

Era impossibile per chiunque avere dei ricordi delle anime di Auschwitz.
Tutte quelle persone, in fondo, non erano state null’altro che un’infinita sfilata di volti senza nome e senza felicità e, nell’istante stesso in cui avevano messo piede nel campo di sterminio, il loro orologio temporale aveva iniziato un’inarrestabile corsa verso la morte.

Una routine, una monotona routine, proprio come quella di una catena di montaggio.

campi di sterminio

Ogni mattina ad Auschwitz arrivavano nuovi treni; i convogli varcavano lentamente il cancello d’ingresso e i deportati, stipati fino al limite della capienza dentro carri bestiami in cui avevano viaggiato due o tre giorni in piedi e senza mangiare, venivano fatti scendere e smistati con brutale e teutonica solerzia. Gli anziani finivano subito nelle camere a gas e i loro cadaveri venivano cremati nel giro di pochissime ore.
Si potevano bruciare fino a 2.000 persone al giorno grazie alla moderna tecnologia ideata dai fratelli Topf, gli inventori dei forni crematori nazisti.
In pratica le esistenze di vecchi e malati terminavano esattamente lì dove iniziava il fumo degli inceneritori, e nessun Dio degli uomini, per quanto onnipotente, sarebbe più stato in grado grado di distinguerne le singole identità.

In quella bolgia d’inferno un uomo stava ancora chiedendosi come fosse finito in quel luogo. Si chiamava Jan Liwacz e non era ebreo, non era un criminale, non era neanche un misero ladro di galline.
Era solo un anonimo e silenzioso artigiano cui il destino aveva riservato la sfortuna di fargli possedere una nera officina da fabbro all’interno del ghetto di Varsavia. A Jan non interessavano minimamente né la politica né la religione. L’unico scopo della sua vita, fino ad allora, era stato quello di riuscire a combinare il pranzo alla cena, e quando venne arrestato dalle SS, nei primi giorni del maggio del 1943, durante la devastante repressione della rivolta del ghetto, non riusciva a capire cosa volessero quegli invasati da lui.

JUDE… JUDE KAPUT!!!” gli avevano urlato, e poi giù botte a non finire con i fucili e con una pioggia di calci nello stomaco.
Non sono ebreo” aveva provato a difendersi, ma tutto era stato inutile, le SS non comprendevano o, più verosimilmente, non avevano la minima intenzione di comprendere.

Solo qualche ora dopo il suo arrivo ad Auschwitz, un ufficiale tedesco si rese conto che il prigioniero non fosse un giudeo, ma si trovava lì e ci sarebbe restato lo stesso, volente o nolente.
In fondo c’era estremo bisogno di forza lavoro per le “necessità vitali” del Terzo Reich. E poi un polacco era solo un miserabile gradino più in alto di un ebreo nella piramide classista hitleriana.

auschwitz
I forni crematori ad Auschwitz

Fu in questo modo che gli occhi di Jan Liwacz videro tutto l’orrore che era possibile vedere. Dall’interno della sua officina di fabbro, l’uomo fu testimone di tutte le volte che il dottor Mengele sceglieva personalmente i bambini su cui effettuare i suoi esperimenti. Quando dovette sostituire la serratura della porta dello studio del “dottor morte”, vide anche la famigerata parete di occhi. Sugli scaffali dello studio del medico nazista campeggiavano mostruosamente centinaia di bulbi oculari conservati dentro teche di vetro contenenti formalina.
Le abat-jour erano realizzate di pelle umana.
Era la personale collezione di orrori di Mengele, e la bestia ne andava fiero!

Jan, per ogni giorno che rimase nel campo di sterminio di Auschwitz, vide scheletri senza più volontà costretti a lavorare fino allo sfinimento, che si auguravano di morire senza attendere un solo secondo in più. Jan vide tutto ciò che nessun uomo oggi ragionevolmente crederebbe possibile ma, a pensarci bene, è proprio questo il motivo per cui ancora oggi, nel 2021, esistono ancora persone disposte a giurare che ciò che ci è stato raccontato in realtà è mai accaduto davvero.

Fu allora che Jan Liwacz, l’uomo a cui non interessava nulla di politica e di religione, trovò il coraggio di ribellarsi e divenne il rivoluzionario più creativo e geniale della storia del mondo. Accadde quando Rudolf Hess in persona gli commissionò la scritta da apporre sul cancello principale del campo di sterminio: “ARBEIT MACHT FREI”
Il lavoro rende liberi! Forgia questa scritta schiavo!”

Fu un lampo di genio, un gesto di ribellione altissimo! La mente di Jan concepì di commettere un errore volutamente costruito e celato ai nazisti per lanciare un messaggio al mondo esterno.
Un messaggio che però nessuno riuscì a comprendere per tempo.
Solo molto tempo dopo, quando ormai tutto era stato compiuto, gli uomini seppero dell’orrore della verità. E quell’errore del povero fabbro di Varsavia è ancora lì, quale testimonianza incredibile e feroce che grida giustizia per quella vergogna.
Jan Liwacz forgiò la lettera “B” a rovescio per denunciare quello che stava accadendo ad Auschwitz.
I nazisti non diedero peso a quella stranezza, ma anche il resto del mondo, purtroppo, fece la stessa cosa.

Questo fu il messaggio dell’operaio fabbro Jan Liwacz. La sua personale ribellione all’orrore più grande dell’umanità. “Non è come vi fanno credere.
Come fate a non accorgervene
?”

Nota dell’autore: ho avuto la possibilità di scrivere questa storia solo perché Stefano Borgna, eccelso scrittore napoletano nonché mio grandissimo amico, ha avuto la pazienza di raccontarmi la vicenda umana di Jan Liwacz.
A lui va tutta la mia stima ed il mio affetto.