Il mito di Garibaldi e il Risorgimento che non abbiamo studiato

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Il genocidio italiano cancellato dai libri di storia e dalla coscienza collettiva

di Alina Di Mattia

Con lo sbarco dei Mille e le imprese eroiche di Giuseppe Garibaldi, patriota carismatico e di indubbio valore militare, amato dal popolo e relegato per sempre nell’Olimpo mitologico, è nata l’Italia, la nostra Patria.

Nessuno metterebbe in discussione un dogma nazionale tanto radicato nella nostra cultura, se non ci fossero testimonianze, ormai evidenti, di un Risorgimento nascosto, fatto di dolore e atrocità, ma soprattutto di fango. L’altra faccia di un’epopea i cui protagonisti principali furono partigiani ante litteram, briganti, banditi, milioni di persone innocenti che furono private, nel giro di pochi mesi, di identità e dignità.  Una storia rimossa dai libri, cancellata dalle coscienze, epurata dei ricordi per non scalfire l’immagine di chi credette, forse in buona fede, di combattere per unire un popolo, e che invece si ritrovò a salvaguardare gli interessi di una ristretta élite, causando un profondo cambiamento economico-culturale attraverso cui furono gettate le fondamenta per il totalitarismo che devastò l’Italia e l’Europa nel XX secolo.

Il Sud prima dell’Unità d’Italia

Era la primavera del 1860. Erano passati più di settecento anni dalla notte di Natale del 1130, quando il normanno Ruggero II di Altavilla, dopo aver sconfitto gli arabi e con l’appoggio di papa Anacleto II, divenne re di Sicilia, Puglia e Calabria, dando vita al terzo stato più grande d’Europa, unificato, nel 1816, da Ferdinando II di Borbone. Seicentosessantasei Natali erano invece trascorsi dalla salita al trono di Federico II di Svevia.

Il paese di Federico II era decisamente avanzato sotto il punto di vista intellettuale e politico. Era il centro del mondo, il catalizzatore di culture diverse tra loro, con una popolazione che si esprimeva in latino, greco e arabo e osservava senza contrasti fedi religiose differenti. Con l’Università di Napoli, fondata nel 1224, fu creato il più importante centro di cultura europeo del Medioevo, un punto d’incontro  tra le tradizioni greca, araba ed ebraica. Alla corte di Palermo nacque la Scuola poetica Siciliana, una corrente filosofica-letteraria che dette vita alla lingua romanza, mezzo secolo prima della Scuola Toscana. Il fior fiore della Cultura e dell’Arte, hanno scritto, con la più alta percentuale di medici per abitanti e la più bassa percentuale di mortalità infantile d’Italia.

Johann Sebastian Bach con Federico II
Johann Sebastian Bach con Federico II

Dopo Federico II, il Mezzogiorno visse un periodo di prosperità sotto i Borbone di Napoli. Nel 1737, fu creato il Teatro di San Carlo, il primo teatro lirico al mondo, e negli stessi anni istituita la prima cattedra di Economia. Furono costruiti castelli, fortezze, rocche, palazzi, luoghi di culto, ed emanate le prime importanti leggi. Venne realizzata la Napoli-Portici, il primo tratto di Ferrovia nel nostro Paese, aperto il primo istituto per sordomuti, creata la prima compagnia di navigazione a vapore di tutto il Mediterraneo e persino la prima fabbrica italiana per operai. L’età dell’oro, venne chiamata quell’epoca.

La Storia ci racconta che, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, Garibaldi partì da Quarto alla volta del Regno Duosiciliano a capo di un esercito di mille volontari, che poi mille non erano. Con l’occupazione di Palermo, il generale si ritrovò circa ventimila uomini al suo seguito, per lo più stranieri e malavitosi al soldo della criminalità organizzata, e pertanto ben foraggiati di armi e denaro, con i quali si mosse verso Napoli, distruggendo tutto nel suo avanzare trionfante:  Calatafimi, Milazzo,  Palermo, Messina, Siracusa, Reggio, Cosenza, Salerno, Napoli.  Obiettivo, scacciare i Borbone e unificare l’Italia.

Questo è ciò che ci è stato insegnato. E in effetti, tutto fu distrutto. Quello che non ci è stato detto, invece, è che il Regno delle Due Sicilie fu conquistato con la forza, e pagato con il sangue di chi, in quelle terre, ci viveva in pace.

La spedizione dei Mille

Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza da genitori liguri. A quattordici anni decide di arruolarsi come mozzo, deludendo le aspettative del padre che lo voleva dedito alla carriera di medico o avvocato. Dopo qualche decennio di esperienza sui mercantili, approda in sud America, partecipando in prima persona alle Guerre di indipendenza, imprese che faranno la sua formazione e gli regaleranno l’appellativo di eroe dei due mondi. Tornato in Italia, si avvicina ai movimenti patriottici europei e italiani, entrando in contatto con Giuseppe Mazzini.

Per scongiurare una reazione delle forze cattoliche davanti a una possibile invasione degli Stati ancora appartenenti alla Chiesa, reazione che avrebbe distrutto la politica di Cavour – all’epoca presidente del Consiglio dei ministri – il condottiero fu distratto dai suoi obiettivi internazionalisti e coinvolto in quella che avrebbe dovuto essere inizialmente l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte e alla Lombardia. I suoi ideali di libertà e indipendenza, ma non solo quelli, lo spinsero a condurre la spedizione dei Mille in direzione di Marsala, e ad assumere, in quel di Salemi, la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II (Fonte: Enciclopedia Treccani), il quale, più che l’unificazione nazionale, desiderava pagare i debiti contratti dal Piemonte.

O la guerra o la bancarotta scrisse Pier Carlo Boggio, deputato alla Camera del Regno di Sardegna e braccio destro del Conte di Cavour.

Vani furono gli sforzi di Re Francesco II per contrastare l’avanzata che, come si evince dall’immagine in basso, coinvolse buona parte degli Stati della penisola. L’ultimo baluardo borbonico a cadere, dopo Messina e Gaeta, fu la fortezza di Civitella del Tronto. Venne espugnata il 20 marzo 1861, tre giorni dopo l’incoronazione di Vittorio Emanuele II a Re d’Italia.

unificazione dell'italia

Otto anni dopo la sua epica impresa, Garibaldi scriverà “gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio“.

Quel 1860 arrivò pertanto come una maledizione.  Vennero cancellate dal Regno le istituzioni politiche e sociali, sventrato completamente il tessuto industriale e mercantile per favorire la crescita di un nord in miseria e affamato, e senza alcuna attività economica avanzata; depredato l’oro e l’argento del Banco di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia – le casse contenevano circa 400 milioni di lire, una cifra impressionante per quell’epoca – smontati i macchinari di officine e industrie manifatturiere, meccaniche, cantieristiche, minerarie, siderurgiche, militari e ferroviarie, e trasportati nei territori di Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo. Tutto fu razziato per pagare i debiti del Piemonte e finanziare patrimoni privati.  Sparirono in un colpo ministeri, ambasciate, la Zecca; 30.000 posti di lavoro cancellati da un giorno all’altro! Vennero annullati tutti gli accordi di scambio tra il regno borbonico e l’estero, costretto il sud a importare dal nord, ma non viceversa, tanto che la lana abruzzese fu rimpiazzata con quella neozelandese. Fu introdotta la tassa sul macinato, e per mangiare un agnello del proprio allevamento bisognava addirittura pagare un dazio. Ventidue nuove tasse introdotte contro le precedenti cinque imposte dai Borbone. Dulcis in fundo, il meridione, ormai in ginocchio, dovette accollarsi anche le spese di guerra.

Una conquista del Nord sulla pelle delle genti del Sud”, dichiarò Antonio Gramsci. Nel 1920, su Ordine Nuovo, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

I desaparecidos italiani

5.212 condanne a morte, 500.000 persone arrestate, 62 paesi rasi al suolo, fucilazioni di massa, contadini morti di fame perché veniva impedito loro di recarsi nei campi a procurarsi del cibo, violenze disumane e stupri efferati, dei quali vi risparmio i crudeli e orripilanti dettagli. 

O si moriva di stenti o si finiva ammazzati e spesso la seconda scelta appariva quella meno dolorosa. Un’alternativa era quella di darsi al brigantaggio. 

 

40.000 deportati, delinquenti insieme a innocenti, uomini di chiesa, contadini, intellettuali, ex soldati dell’esercito borbonico, civili accusati di brigantaggio, prigionieri politici, ex garibaldini disertori, lasciati morire deliberatamente di fame, sevizie, maltrattamenti inenarrabili,  segregati in campi di concentramento ante litteram nei quali la temperatura era quasi sempre sotto lo zero. A Fenestrelle, 1.350.000 mq di struttura a 2.000 metri di altezza sulle Alpi Cozie,  vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo polare i prigionieri. 

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Ulteriori informazioni

L’Armonia, un giornale piemontese dell’epoca, definiva così i prigionieri di Fenestrelle: “La maggior parte dei poveri reclusi sono ignudi, cenciosi, pieni di pidocchi e senza pagliericci. Quel poco di pane nerissimo che si dà per cibo, per una piccola scusa si leva e, se qualcuno parla, è legato per mani e per piedi per più giorni. Vari infelici sono stati attaccati dai piedi e sospesi in aria col capo sotto ed uno si fece morire in questa barbara maniera soffocato dal sangue e molti altri non si trovano più né vivi, né morti. E’ una barbarie signori”.

Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”, recitava la scritta all’ingresso della struttura, 80 anni prima di Auschwitz.       

Vi entrarono in migliaia e in migliaia scomparvero nel nulla, forse disciolti nella calce viva per cancellarne il ricordo e la memoria. Di tale obbrobrio non vi sono prove ufficiali, e gli autori revisionisti che hanno definito Fenestrelle un campo di concentramento hanno incontrato un fervido debunking a smentire ogni tesi. Tuttavia, presso lo Stato Maggiore dell’Esercito si conservano 150.000 pagine, 140 dossier che, secondo alcune fonti, conterrebbero la verità ancora e stranamente protetta dalla censura di guerra, dopo oltre 150 anni. (Fonte: “Le stragi e gli eccidi dei Savoia: Esecutori e mandanti” di Antonio Ciano). Neppure l’interpellanza parlamentare del senatore Angelo Manna, il 25 settembre 1990, è riuscita ad accendere i riflettori sui crimini del Risorgimento. Sul muro della struttura intanto campeggia in bella vista una targa abusiva e mai rimossa che commemora le vittime, e “i pochi che sanno s’inchinano”.

fenestrelle genocidio meridionali

Tacciati di inciviltà e bollati come selvaggi, gli abitanti del Sud, definiti una razza inferiore, dovevano essere annientati. Il folle disegno era appoggiato dalla ‘alta scuola’ del criminologo Cesare Lombroso, medico, antropologo, sociologo, filosofo e giurista – un genio insomma – sostenitore accanito della Frenologia di Gall, che, visitando la Calabria per poche settimane, si convinse di conoscere tutto sui meridionali. Inoltre, grazie a una legge promossa dall’aquilano Giuseppe Pica (da cui il nome), che il 15 agosto 1863 introdusse il reato di brigantaggio, fu resa legale ogni forma di violenza e permesso che un tribunale militare giudicasse, senza cognizione di causa,  chiunque e senza un regolare processo. 

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Ulteriori informazioni

Il caso più eclatante accadde a Bronte, nel catanese. Sperando nelle terre promesse da Garibaldi e nell’aiuto dei Mille, in paese scoppiò una sommossa di contadini. Garibaldi inviò Bixio a reprimerla con un processo sommario durato poche ore, che si risolse con l’esecuzione di diversi cittadini tra cui il sindaco del paese, completamente innocente, e persino un giovane demente.

A Gaeta, negli anni Sessanta, durante gli scavi per la costruzione di una scuola media, furono rivenuti 2.000 cadaveri di soldati borbonici e persone comuni. E chiuso ancora una volta il sipario.

Mezzo milione di persone sparite, volatilizzate, e paesi interi come Contessa Entellina, Ustica, Cefalù, Corleone, Palazzo Adriano, Trabia, Gibellina, Vallelunga, Alia, Sambuca, Gibellina, Caccamo, Bisacquino, svuotati dei loro abitanti.  (Fonte: Storia vera e terribile tra Sicilia e America di Enrico Deaglio – Garibaldi)

O briganti o emigranti!

Dal 1870 al 1913, furono imbarcati sui velieri diretti al ‘nuovo mondo’, chi con la forza e chi con l’inganno, un numero impressionante di italiani per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e nei campi di cotone, al fine di rimpiazzare i neri finalmente liberati. Lì, ad accoglierli, miseria, soprusi, fatica e linciaggi a morte. Una delle più grandi truffe perpetrate ai danni di una popolazione intera dai governi moderni. 

O briganti o emigranti era il motto ai tempi di Garibaldi. In effetti, di armate brigantesche post-unitarie ne nacquero a centinaia, appoggiate incondizionatamente dalle popolazioni civili, e alla cui ferocia l’esercito sabaudo rispose con brutali rappresaglie che colpivano familiari fino al terzo grado di parentela.  Solo in Abruzzo, terra che non fu risparmiata dall’eccidio, si contavano ben 39 bande.

Quando il governo sabaudo cominciò ad avere difficoltà a placare le sommosse che scoppiavano continuamente nelle prigioni, sorvegliate ormai dalle poche truppe restanti al nord, poiché la maggior parte era concentrata a reprimere il brigantaggio nel meridione, fu decisa una sorta di “soluzione finale”: la deportazione dei prigionieri in un’isola portoghese in mezzo all’Oceano Atlantico. Al rifiuto del Portogallo, i sabaudi tentarono di trovare accordi con altri governi, in particolare con l’Argentina per la concessione della Patagonia, un territorio desertico e totalmente inospitale che avrebbe dovuto ‘accogliere’ i prigionieri. Fortunatamente, il piano non poté essere attuato.

Sette secoli di splendore andati perduti

Il piemontese Alessandro Bianco di Saint Jorioz, capitano nel Corpo di Stato Maggiore Generale che prese parte alla distruzione del Regno delle Due Sicilie scrisse:  “Ero convinto di combattere la povertà dei coloni agricoli, la rapacità e la protervia dei nobili, l’ignoranza turpe, la superstizione, il fanatismo, l’idolatria, la sregolatezza dei costumi, l’immoralità, le corruttele di  impiegati, magistrati e pubblici funzionati, la rapina, il malversare. Insomma: il male. Questo, mi avevano raccontato, era il Sud. Quel popolo invece era, nel 1859, vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l’opposto».

Un divario fra Nord e Sud tuttora non sanato e cominciato proprio con l’Unità d’Italia. Un declino inarrestabile che sembrò trovare sollievo con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, definitivamente chiusa nei primi anni ’90, ma che finì di incrementare la criminalità organizzata.

Questa è l’altra faccia del Risorgimento, quella che si deve tacere per evitare di essere politicamente scorretti. Un genocidio cancellato non soltanto dai libri di Storia ma anche dalla coscienza collettiva; un’onta talmente infamante che il figlio stesso di Garibaldi, Ricciotti, venuto a conoscenza dei fatti, si schierò dalla parte dei briganti. La pronipote Anita, durante la trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa, conferma il fatto: ”Mio nonno si indignò talmente tanto dello sfruttamento del Meridione da parte della nuova Italia, che andò a combattere con i briganti”.

Italiani contro italiani, fratelli contro fratelli.

Non c’è in questo scritto alcuna intenzione di generare imbarazzo tra popoli con la stessa bandiera e la stessa lingua, né quella di attentare alla vita del giovane e ignaro Savoia, trasferito da poco in Italia. Giammai. Nessuna volontà, inoltre, di favorire qualche politico attuale. Vorrei, invece, contribuire, con quelle che sono le mie conoscenze, ricavate da letture e lunghe ricerche personali, a ridisegnare i contorni di un genocidio che meriterebbe almeno un giorno di commemorazione e che sancirebbe la vera unità della nostra gente, da nord a sud. Sono i silenzi storici e le verità negate che frammentano i Paesi e fomentano rancori tra le popolazioni.

Accendere i riflettori su una realtà storica insabbiata (una delle tante, ma è un primo passo) è un atto di democrazia o, se mi è consentito, di onestà intellettuale. Gli eroi a cui intitolare piazze, ponti e strade sono certamente altri.

PUBBLICATO PRECEDENTEMENTE SU ILFARO24

Bibliografia:

  • Aprile, Pino. Terroni. Milano: Piemme, 2010.
  • Bianco di Saint Jorioz, Alessandro. Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863. Chieti: Solfanelli, 1997.
  • Ciano, Antonio. I Savoia e il massacro del Sud. Napoli: Controcorrente, 1996.
  • Ciano, Antonio. Le stragi e gli eccidi dei Savoia: Esecutori e mandanti. Gaeta: Associazione Culturale Il Sestante, 2005.
  • Deaglio, Enrico. Storia vera e terribile tra Sicilia e America. Milano: Sellerio, 2015.
  • De Roberto, Federico. I Viceré. Torino: Einaudi, 1894 (varie edizioni).
  • De Salis, Carlo Ulisse. Nel Regno di Napoli, Viaggi attraverso varie provincie nel 1789. Milano: Feltrinelli, 1983 (ristampa).
  • Pellicciari, Angela. Risorgimento da riscrivere. Roma: Ares, 1998.
  • Schifano, Jean Noel. Desir d’Italie. Milano: Mondadori, 1995.
  • Viglione, Massimo. L’identità ferita. Napoli: Controcorrente, 1999.

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