di Tito Lucarelli
Il terremoto, si sa, cagiona lutti e disperazione, ma talora genera delle storie particolari che vale la pena raccontare. Una di queste è la vicenda della donna che partorì sotto le macerie.
Si chiamava Esterina Sorge. Era sposata con Luigi Gallese ed abitava ad Avezzano in via Muzio Febonio. Quel 13 gennaio 1915, suo marito, amante dell’arte venatoria, si era alzato molto presto per andare a cacciare con alcuni amici sul vicino monte Salviano.
Era una gelida mattina invernale, una delle tante, e nulla faceva prevedere ciò che di lì a poco sarebbe accaduto. Sua moglie Esterina si era alzata di buon’ora per preparare la colazione al marito che si accingeva alla battuta di caccia. La giovane donna era incinta ed era molto felice perché presto la sua famiglia si sarebbe arricchita di un nuovo arrivo, evento che ormai si stava avvicinando.
Dopo la colazione, Luigi uscì di casa e salutò sua moglie, non preoccupandosi più di tanto del fatto che costei fosse in dolce attesa. Infatti, mancava ancora un po’ di tempo al lieto evento e nulla lasciava presagire che questo potesse anticiparsi di qualche giorno. Con il fucile a tracolla, raggiunse gli amici ed insieme si incamminarono sulla strada che li conduceva sul monte Salviano. Da quel monte essi potevano osservare tutto il bel panorama della loro città, che da lassù appariva splendido.
Alle ore 7, 52 minuti e 43 secondi un forte sobbalzo fece tremare violentemente tutta la terra. Tutto intorno traballava e vibrava. Un terremoto devastante, come pochi se ne siano mai visti, stava scuotendo tutto il territorio della Marsica. Luigi e i suoi amici facevano fatica a restare in piedi. Il loro sguardo atterrito era rivolto giù, verso il luogo in cui avevano lasciato i propri cari. In pochissimi secondi sotto i loro occhi increduli si sbriciolarono tutte le case della città, mentre un grosso polverone si alzava nascondendo tutto. Stavano assistendo ad un evento terrificante. 36 interminabili secondi di terrore, poi tutto tacque.
Via via che la polvere si diradava, si apriva uno spettacolo desolante: la città di Avezzano non esisteva più. Dall’alto del monte non riuscivano più a distinguere le strade, la chiesa di San Bartolomeo, il castello, i palazzi, quei punti di riferimento che avevano sempre guidato i loro sguardi sulla città per individuarne luoghi ed altro. Solo macerie, macerie, un grande ammasso di macerie e calcinacci. Gli uomini con una corsa affannosa, con il cuore che batteva a mille, si avviarono in fretta verso le loro case con la speranza che queste fossero ancora in piedi e che i loro familiari fossero ancora in vita. Per Luigi la preoccupazione era doppia, perché sua moglie Esterina era in attesa di un figlio. Giunti nel centro abitato, ciò che si trovarono di fronte era molto più orrendo di quanto avessero visto dal monte Salviano. Sparsi ovunque vi erano morti sotto i calcinacci; feriti che gridavano aiuto; persone completamente ricoperte di polvere che girovagavano piangenti tra le macerie come imbambolate, frastornate, senza meta. Uno scenario inimmaginabile. Luigi si diresse subito verso il luogo in cui si trovava la sua abitazione e nel quale aveva lasciato sua moglie incinta.
Tutto era surreale; tutto era irriconoscibile; aveva difficoltà persino ad identificare il luogo in cui abitava. Finalmente, giunto sul luogo, ebbe una brutta sorpresa: la sua casa non esisteva più; al suo posto solo un grosso ammasso di pietre e calcinacci. Gridò, cercò, chiamò sua moglie nella speranza che lei si fosse salvata. Ma nulla. Urlava il suo nome sul quel mucchio di macerie in attesa di una risposta, di un lamento, di un qualsiasi segnale che gli facesse capire dove la poveretta si trovasse sepolta e se fosse ancora viva. Ma niente. Scavava come un forsennato qua e là con le mani nude; chiedeva aiuto alle persone intorno, ma coloro che si trovavano nei pressi era nelle stesse condizioni di Luigi: anch’essi a loro volta chiedevano aiuto. Continuava a rimuovere le macerie inesorabilmente in ogni angolo della casa, augurandosi di sentire una voce. Ma tutto taceva.
Era accaduto che la povera Esterina era rimasta sepolta viva sotto le macerie di casa. Una trave del soffitto le si era poggiata di traverso sul petto e su di essa i resti di una porta divelta che la proteggeva. Si era creato un piccolo anfratto nel quale il suo corpo era rimasto intrappolato. Lei era distesa supina per terra, ma non poteva muovere un braccio perché bloccato dai calcinacci e da uno dei capi della trave che poggiava a terra, mentre l’altro, seppur con molta difficoltà, riusciva a muoverlo. La trave, infatti, era rimasta in posizione inclinata poggiando l’altro capo sulle macerie, lasciando al di sotto un piccolo spazio che permetteva alla donna un minimo movimento dell’arto e delle gambe. In ogni caso le poggiava sul seno immobilizzandola e permettendole solo di respirare.
Esterina tentò di liberarsi ma l’impresa era impossibile oltre che pericolosa, in quanto c’era il rischio che le crollassero addosso tutti i calcinacci che la trave aveva in qualche modo fermato. Insomma, era rimasta in quella posizione supina e non poteva fare alcun movimento che le consentisse di divincolarsi o comunque allievare la sua sofferenza. Gridava aiuto con tutto il fiato possibile, piangeva, si disperava, ma nessuno rispondeva. Sentiva il marito che chiamava a gran voce il suo nome. Lei rispondeva a squarciagola, ma il povero Luigi non riusciva a sentirla.
La sua maggiore preoccupazione era per la bimba o bimbo che portava in grembo. “ Oh, mio Dio, chissà come andrà a finire? Probabilmente moriremo entrambe sotto queste macerie!”, pensava la donna. Luigi scavò, chiamò per tutto il giorno, fino a sera, senza alcun risultato. Iniziò a farsi strada in lui la convinzione che sua moglie Esterina, la sua cara Esterina, non ce l’avesse fatta.
Mentre si trovava in quella scomoda posizione, senza potere fare nulla per modificare le cose, la donna iniziò a sentire alcune piccole fitte di doglie del parto. Pensò e si augurò che fosse solo un fenomeno passeggero causato dall’agitazione e dallo spavento. Infatti, poco dopo le doglie cessarono e tutto sembrò tornare alla normalità. Intanto era sopraggiunta la notte. Esterina era sotto quelle macerie tutta infreddolita, con dolori sparsi per tutto il corpo e con pensieri e paure che le si accavallano nella mente. Era costernata perché ascoltava tutto ciò che accadeva su di lei, ma nessuno riusciva a sentire le sue disperate grida d’aiuto. Ogni tanto le sembrava di perdere i sensi e cadeva in un sonno dovuto alla stanchezza, ma subito dopo ritornava in sé.
Durante la notte, si sa, i suoni si propagano in modo molto maggiore rispetto al giorno. A notte fonda, mentre era lì distesa, sentì alcune voci che riconobbe non essere quelle di suo marito; erano sconosciute e sembrava appartenessero a più soggetti. Capiva che spostavano sassi, ma ebbe l’impressione che non fossero soccorritori. Esterina gridò aiuto ad alta voce. Le sue grida furono sentite da quelle persone. La povera sventurata, infatti, intese che esse avevano percepito le sue grida d’aiuto, perché sentì che si confermavano a vicenda ciò che avevano udito. Ma quelle, anziché prestare soccorso, scapparono via. Erano alcuni malviventi che di notte andavano rovistando tra i calcinacci delle case distrutte, nella speranza di trovare oggetti preziosi da rubare, condotta che costituiva un grave reato che allora poteva anche portare alla fucilazione dei colpevoli. Per evitare di essere scoperti si guardarono bene dal riferire alle autorità che sotto quelle macerie avevano sentito una voce. Il giorno seguente, il 14 gennaio, le doglie del parto si presentarono di nuovo. Questa volta non erano lievi come il giorno prima. Esterina capì che la bambina o il bambino che lei aveva in grembo aveva deciso di nascere. Era disperata, fu presa dal panico e da una raffica di preoccupazioni e di paure per essere costretta a partorire in condizioni come quelle, mancando anche della necessaria esperienza essendo al primo parto. A complicare il tutto, inoltre, c’era la trave che le poggiava sul petto e che non le permetteva di vedere il resto del corpo. Poteva solo muovere in modo limitato il braccio libero. Riusciva a malapena ad infilarlo nello spazio che si era creato sotto la trave e a toccarsi il basso ventre, nulla di più. “Come faccio? Aiutatemi, qualcuno mi aiuti!” gridava disperata Esterina. Mentre la sua mente si arrovellava in milioni di pensieri che si rincorrevano l’un l’altro, alla donna si ruppero le acque. In una condizione disagiata la bambina iniziò a farsi strada per venire al mondo. La madre non poteva fare nulla se non accettare il fato e cercare di gestire il momento come meglio poteva. Tra i forti dolori del parto, aiutandosi con la sola mano che poteva muovere e che le permetteva di raggiungere le sue parti intime, aiutò la bambina a nascere. Capì che era femmina tastandola con la mano, perché lei non la poteva vedere. La neonata diede subito il suo saluto al mondo con una vocina fatta di un pianto che alla donna sembrava una musica soave: tanto era bella! La sua bambina, che aveva portato in grembo per molti mesi e che aveva aspettato con un amore e con un affetto che solo una madre può esprimere e capire, era venuta al mondo. Aveva scelto un momento unico e particolare; ma ora quel piccolo miracolo della natura faceva parte di questa vita ed era il dono più bello che una madre potesse ricevere.
Esterina, nonostante il drammatico momento, era felice. Sentiva di amare quella bambina molto più di ogni altra cosa al mondo. Cercò di pulirla e asciugarla dal liquido della placenta che aveva addosso utilizzando la sottoveste che indossava nel momento del terremoto. Pensò di legare il cordone ombelicale della bimba con una ciocca di capelli. Infatti, con l’unica mano libera si strappò una ciocca di capelli dalla testa. Ben presto, però, si rese conto che era molto difficile se non impossibile fare un nodo con quel ciuffo di capelli usando una sola mano e senza vedere nulla. Le venne in mente allora di strappare una striscia di stoffa dalla sua sottoveste e con questa legò il cordone ombelicale della bimba. Poi, con le unghie della mano recise il budello che ancora legava la neonata alla madre. Cercò di tenere al caldo la bambina posizionandola tra le proprie gambe e rassicurandola con dolci carezze. Ben presto, però, la neonata iniziò a dimostrare segni di fame, ma Esterina non poteva attaccarla al proprio seno, poiché ciò le era impedito dalla trave che le poggiava sul petto. Non poteva fare altro che metterle il dito della mano in bocca. Quando la bambina lo sentiva, iniziava a succhiare con una forza tale come solo i neonati sanno fare. Terminata la fase del parto, iniziarono a tornare nella mente di Esterina i pensieri e le paure che esse, madre e figlia, non sarebbero mai state trovate e salvate in tempo. Questa volta le preoccupazioni erano ancora peggiori di quelle iniziali. La salvezza di sua figlia veniva prima di tutto.
Più passava il tempo e più la bambina aveva fame. Piangeva, si disperava, ma Esterina non poteva fare altro che cercare di raddolcirla mettendole il dito in bocca per farla succhiare. Quando lo toglieva, la bambina iniziava di nuovo un pianto a dirotto con una vocina da rompere i timpani. Fino a quando, stanca, la piccola cedeva al sonno. Lei intanto continuava a sentire la voce di suo marito che la chiamava e la cercava disperatamente. Esterina, a sua volta, rispondeva urlando più che poteva, cercando di zittire la voce della bimba quando piangeva, per riuscire a capire se suo marito, Luigi, avesse percepito qualcosa, ma nulla.
Passò un altro giorno. Esterina e la piccola si accinsero a passare la notte in quelle disgraziate circostanze. Sia di giorno sia di notte la temperatura era molto fredda e Esterina cercava di proteggere la bimba tenendola sempre stretta tra le gambe, coprendola con qualche lembo della sua sottoveste. Il giorno successivo, al mattino, Esterina udì di nuovo suo marito che la cercava ostinatamente tra le macerie. La donna, ormai esausta, continuava, sì, a chiedere aiuto, ma lo faceva con un tono così affievolito da non riuscire più a gridare ad alta voce. La stanchezza e la rassegnazione ad un destino crudele iniziava a farsi strada nella sua mente. La bambina, però, aveva fame e appena svegliatasi iniziò a piangere così forte e con una tale disperazione che suo padre Luigi, che si trovava intento a smuovere le macerie, riuscì a sentire qualcosa. “Sento una voce! Sento una voce! Esterina, Esterina!” gridò Luigi. Costei, che, come detto, sentiva tutto, ebbe la sensazione che suo marito avesse udito la voce della bambina. Per accertarsene meglio, mise il dito nella bocca della sua piccola per zittirla un momento. Dalle voci allarmate del suo Luigi capì che costui aveva effettivamente percepito il pianto della bambina. Esterina tolse, allora, il dito dalla bocca della neonata e la lasciò piangere così tanto che suo marito riuscì a individuare il punto da dove veniva quella voce. Chiese immediatamente i soccorsi, che riuscirono finalmente a salvare entrambi. Sia la madre che la piccola neonata furono ricoverate in un ospedale di Roma.
L’accaduto ebbe eco in tutta Italia. Ogni giornale raccontò l’avvenimento. Durante il ricovero, Esterina e sua figlia ricevettero la visita della Regina Elena, la quale non solo volle dare lei stessa il nome alla bambina chiamandola “Fortunata”, ma le volle fare anche da madrina di battesimo, regalandole un prezioso corredino.
Fortunata morì all’età di 23 anni, il 28 agosto 1938, per una peritonite presso l’ospedale di Avezzano. Ad Esterina fu conferita la medaglia d’argento al valore civile dalla Fondazione Carnegie, Ente di carattere internazionale con sede in America e, in occasione del 50° anniversario del terremoto, anche la medaglia appositamente coniata per l’occasione dal Comune di Avezzano.
Esterina è una donna che io stesso ho conosciuto personalmente e dalla quale ho avuto il piacere di ascoltare in più occasioni la narrazione di tutta la vicenda da lei vissuta in quel momento. Una delle sue figlie, Annunziata, detta comunemente Tina, andò in matrimonio a mio fratello Quirino, con il quale, negli anni, abbiamo più volte rievocato l’avvenimento.