La storia di Ellis Island come punto di ingresso per gli immigrati inizia nel 1892, quando fu aperta come stazione di ispezione per il servizio di immigrazione degli Stati Uniti. La sua posizione strategica nel porto di New York la rese il luogo ideale per controllare e registrare gli immigrati che arrivavano in America. La struttura principale, il Palazzo dell’Immigrazione divenne il simbolo dell’accoglienza e dell’opportunità per migliaia di persone.
Gli immigrati che vi giungevano dovevano affrontare un rigoroso processo di ispezione. Questo processo includeva una serie di esami medici per verificare la salute degli immigrati. Inoltre, dovevano essere in grado di dimostrare la loro capacità di lavorare e supportare se stessi negli Stati Uniti. Coloro che non superavano questi test potevano essere respinti e rispediti indietro al loro paese d’origine.
Ma prima di arrivare in America, chi partiva doveva prima affrontare un viaggio tortuoso e spesso inumano con i battelli che rappresentavano l’unico mezzo per raggiungere le nuove terre. Questi viaggi, spesso con condizioni igieniche pessime, hanno dato luogo a storie di sofferenza che caratterizzavano la vita a bordo.
«Tredici giorni di miseria e fetore, imprigionati in un oscuro steerage, affollato da emigranti terrorizzati che piangevano e vomitavano». Così Frank Capra descrive il viaggio in America a bordo del piroscafo Germania.
«Ovviamente eravamo nella stiva. Ciascuno aveva del cibo con una puzza diversa e l’aria era così spessa e densa di fumo e secrezioni corporali che la testa prudeva. E quando te la grattavi la mano era piena di pidocchi. Questo l’abbiamo patito per 6 settimane». (Sophia Kreitzberg, 1908)
«Non c’è né spazio né sotto coperta né sul ponte. I 900 passeggeri sono stipati come bestie. Col tempo buono è impossibile passeggiare sul ponte e con quello cattivo egualmente impossibile respirare aria pulita fra le cuccette. Le stive delle moderne navi dovrebbero essere considerate inadatte al trasporto di passeggeri». (Edward Steiner)
Il mal di mare, la possibilità di essere sbarcati in un paese diverso da quello previsto, erano più dolorosi della solitudine e delle preoccupazioni per un futuro incerto. Le speculazioni delle compagnie di navigazione, inoltre, mettevano a repentaglio la vita degli italiani. Molti di loro non avevano mai visto il mare e partivano con il terrore della grande distesa d’acqua; la loro angoscia era aumentata dai racconti dei compaesani scampati ai naufragi.
«È sempre uno scandalo il vedere come sono accumulati gli emigranti a bordo dei vapori in partenza, sdraiati per terra ed ammonticchiati in coperta per settimane intere, senza una scranna per potersi sedere; nei giorni di pioggia addossati sotto coverta, con aria rarefatta pregna di miasmi; nelle ore di pranzo buttati per terra, senza sedie e senza tavole, con i piatti in mano, costretti a compiere ogni più elementare servigio, con un personale di servizio che non ha esperienza ed attitudine sufficiente, raccogliticcio nella parte rilevante, il quale è in genere privo della più elementare educazione ed urbanità. Anche le tabelle dei viveri, specie sui bastimenti di bandiera estera, non sono sempre i più logici, e la pulizia non è troppo rispettata. Me la strapparono dalle braccia, la fasciarono stretta stretta da capo a piedi e le legarono una grossa pietra al collo; di notte, alle due di notte, con quelle onde così nere, la calarono giù in mare. Io urlavo, urlavo non volevo staccarmi da lei, volevo annegare con la mia piccola […] Non volevo lasciarla sola, povera bambina, invece mi tennero indietro mentre la buttavano giù. Quel tonfo in acqua, non posso dimenticarlo». (Giannantonio Stella, 2005)
Lo scrittore italo-americano Pascal D’Angelo, partito ragazzo dall’Abruzzo nel 1910, descrive la prima vista del mare: «Eravamo appena usciti da una galleria, lanciati a tutta velocità verso la pianura campana. Un abbagliante luccichio dilagava tutto intorno e andava a perdersi ai confini del mondo. Sulle prime ebbi paura. Poi pensai: ‘Il mare! Quella deve essere la cosa che chiamano mare!’ E lo era».
Al posto della valigia c’era il ‘fagotto’, ovverosia un pezzo di stoffa, a volte uno scialle, in cui avvolgere le cose da portare con sé. Spesso, in quel pezzo di stoffa c’era tutto ciò che possedevano. I ricordi della famiglia lontana, un biglietto per un compaesano, talvolta una lettera di presentazione per qualcuno che potesse fornire aiuto. Prima dell’imbarco, i passeggeri venivano lavati con un bagno disinfettante, i loro bagagli disinfestati, poiché ogni persona cui veniva rifiutato l’ingresso negli Stati Uniti, rappresentava una multa per la compagnia. Il viaggio durava circa trenta giorni.
All’arrivo, appariva immediatamente chiaro che l’America non era esattamente come l’avevano sognata. Quelli che venivano ammessi erano trattati come bestiame. Le famiglie venivano divise, uomini da una parte, donne e bambini dall’altra. Gli ispettori osservavano attentamente chi entrava per identificare chi mostrasse segni di affaticamento. Ad ogni passo veniva timbrata la scheda sanitaria. Dentro la sala dei registri un altro funzionario verificava il candidato in cerca di sintomi di malattie e deformità.
Il centro era stato progettato per accogliere 500.000 immigrati all’anno, ma nella prima parte del secolo ne arrivarono un milione.
Quando l’emigrante arrivava al porto, la lunghezza della sosta variava. Nella zona c’erano baracche che servivano da dimora agli emigranti in attesa della nave, che vi dormivano anche in 40 per pochi soldi a notte. rima di lasciare l’isola i nuovi arrivati potevano utilizzare una serie di servizi come la vendita di biglietti ferroviari, il cambio di valuta, gestiti da privati in regime di concessione. Ovviamente i truffatori erano in ogni angolo. Durante i controlli spesso venivano rubati i bagagli dei viaggiatori. Le compagnie ferroviarie per massimizzare i ricavi, facevano fare agli ingenui immigrati giri lunghissimi e costosi. I più fortunati avevano, ad attenderli, parenti e conoscenti. Gli abusi furono eliminati nel 1902, grazie al Presidente Roosevelt.
Ellis Island fu soprannominata Isola dell’Inferno o Isola delle Lacrime, in nome delle migliaia di vite transitate, trattenute o rifiutate. Nonostante tutto, il luogo è rimasto simbolo di speranza e opportunità, e oggi, ospita un museo e un monumento nazionale dedicato alla storia dell’immigrazione americana. I visitatori possono esplorare il Palazzo dell’Immigrazione restaurato, scoprire le storie delle persone che sono passate per l’isola e a riconoscere l’importanza dell’immigrazione nella creazione degli Stati Uniti come la “terra delle opportunità.”
di Federico Di Mattia