di Elena Caracciolo
La profondità si raggiunge a forza di scavi e gli scavi sono ferite aperte, spelonche di dolore, fessure di pietra tagliente. Una volta arrivati in profondità, nel confine liminare tra la sofferenza e la resa, si può solamente convertire la durezza di un vissuto in una scrittura duttile, che possa elevare al livello di un patimento comune, di un generale “saper soffrire con”. Tutto questo ce l’ha insegnato Donatella Di Pietrantonio, pennese, autrice de “L’Arminuta”.
“L’Arminuta” è una storia abruzzese di abbandoni, di radici flebili sotto monti imperituri, di madri, figlie e sorelle. È la storia di una bambina scambiata, andata, e poi “ritornata”, con tutto quello che comporta il ritorno in una famiglia di cui, prima di quell’estate del 1975, non si sapeva neppure di far parte.
Oggi, il libro vincitore del Premio Campiello del 2017 è diventato un film ed è in tutte le sale d’Italia dal 21 Ottobre. La regia di Giuseppe Bonito (per Lucky Red distribuzione) ha regalato agli spettatori dei primi piani eccezionali, focalizzati sugli sguardi delle protagoniste Sofia Fiore, Carlotta De Leonardis e Vanessa Scalera. Tre attrici ognuna con occhi differenti, ognuna delle quali, il cui sguardo è sineddoche del temperamento, presenta un diverso modo di imbustare la vita, di inquadrare il mondo, di recepire le cose. Occhi spaventati e interrogativi quelli dell’Arminuta: riservati eppure bisognosi di familiarità. Occhi selvatici e vigili, pronti a luccicare di novità o a riempirsi di certezze quando ve ne fossero, quelli di Adriana, la sorellina più piccola. Occhi, infine, tristi e anziani quelli della madre: densi di una severità che ha conosciuto tante fasi dolorose della vita, nessuna delle quali è riuscita però a tramutarsi in dolcezza materna.
Un lavoro cinematografico difficile ma riuscito, impegnativo e riflessivo, esistenziale e mai sottile: un film che si prende la responsabilità del fardello e lo snoda, passo dopo passo, fedelmente a quel liquido flusso di coscienza del romanzo, con la trasposizione di un bagaglio traumatico di memorie in fotogrammi che alternano l’arretratezza rurale grigia, verde e marrone dell’Abruzzo profondissimo al colore acrilico celeste, arancione e giallo delle speranze cotonate di una bambina orfana che, pur avendo avuto due famiglie, è sola sulla giostra del mondo, senza altro appiglio se non quello scivoloso e vergine delle proprie aspettative.